I morti non perdoneranno chi come noi
si è fermato perplesso sul bordo del pozzo chiedendo: È forse Giuseppe il sumero nostro fratello,
il nostro meraviglioso fratello, cosicché possiamo rubargli i pianeti di questo splendido cielo?1
Mahmud Darwish
Forse perché vecchi, disidratati da ogni spinta di vita, affezionati ai nostri cani, ai pet shop e alle definizioni in scatola, ai monologhi rassicuranti come croccantini anonimi, forse perché una partita di pallone infrange qualche regolamento di condominio e i nostri ragazzi non sudano più, forse perché i bambini sono diventati un bene di lusso, raro e su ordinazione, forse per questo e altro abbiamo in odio la vita e amiamo tanto la morte.
Dov’è finito il nostro cuore? Abbiamo abbandonato ogni discernimento, disorientati nella nebbia dei nostri egoismi, ci siamo fatti attrarre da vuoti sofismi, lasciando da parte le evidenze che fioriscono come erba selvatica nella quotidianità di chi costruisce aquiloni per continuare a sperare: il sogno di una borsa di studio all’estero, la cura quotidiana mese dopo mese di un campo di ulivi, la nostalgia di una biblioteca e di un libro da tenere in mano2.
Forse bisognerebbe cambiare alcuni stereotipi circa gli oppressi. Chi opprime nella sua tracotanza dimentica che a volte le vittime sanno avere una voce e non sono mere comparse della storia, ma attori di cambiamento. Il popolo palestinese nella sua lunga resistenza ha trasformato le marce, i passi e le cadute in una narrazione collettiva che si è fatta racconto epico. Gaza come Troia, Ilio combusta. Il poeta palestinese Mahmud Darwish si definiva un poeta troiano3, voleva essere il testimone del massacro, essere la voce di chi non l’aveva mai potuta raccontare la propria storia, perché la sconfitta si accompagna al silenzio e all’oblio. I greci, i vincitori, avevano avuto Omero, ma i troiani? Quei villaggi e quella memoria storica in Palestina sono stati continuamente cancellati dalle ruspe dell’ideologia e dell’indifferenza e oggi come ieri chiedono la dignità e la legittimità del racconto, non possono essere proprietà esclusiva dell’altro.
Questa lunga notte sta scrivendo l’epos del popolo palestinese, con le sue donne, i suoi figli, intellettuali, contadini, insegnanti, medici e giornalisti; a questo popolo apparterranno un giorno il mito e le gesta, il canto si propagherà dalla distanza dei secoli, avrà gli accenti di tutte le orme del tempo, di chi da questa terra è passato con gentilezza o prepotenza: cananei, ebrei, greci, romani, persiani, egiziani, arabi, ottomani, inglesi, francesi e israeliani. Il ventre di Gaza urlerà e canterà anche nelle voci degli ostaggi israeliani dimenticati e traditi, strumentalizzati dal fast food della propaganda.
Saranno le storie di quell’infinita litania di morti ad allargare i confini della Palestina, a riconquistare le terre perdute nelle parole dei suoi poeti, nel farsi grido e vessillo di tutti gli oppressi di tutte le epoche.
Oggi chi farà una nuova marcia? Saranno solo i sopravvissuti di questo immane genocidio? O non saranno forse anche i morti, quelle madri, quei padri, quei bambini e ragazzi che hanno visto affogare il proprio nome in un numero imprecisato di vittime e menzogne, che sono rimasti strozzati nel ghiaccio di un inverno che ha congelato le gemme delle loro esistenze e non li ha visti sbocciare? Non saranno forse gli anziani che accompagneranno nelle sembianze di ombre i loro figli e nipoti nella speranza di un mondo che potrà essere? Perché la morte è cruda ed essenziale, e sola sa sgretolare il potere e l’inconsistenza degli imperi e dei loro miseri servi.
Sarà forse quel resto di umanità reduce dall’apocalisse a indicarci la strada? Nuovi colonialismi arrivano e altri da tempo ci abitano sdraiati sul divano delle nostre coscienze, ci hanno assuefatto a tutto. Dove ci siamo persi?
Senza lacca e prefazioni4
Cade il cielo
le nuvole come bavagli
strozzano il canto
Fino a quando la cenere coprirà questa terra?
“C’è ancora tempo!”
“Still more time!” (voce di un soldato israeliano)
“Non abbiamo più tempo.”
“La waqta ladayna” (voce del popolo palestinese)
Il tramonto è crepuscolo come seta nylon
Le nostre vite giocate
alla Fiera delle Nazioni, impallinate
in poker di cinismo e mercurio
le hanno sventrate sradicate in ulivi
di odio e sospetto
Anche il fratello ci ha dimenticati
siamo cresciuti tra la sabbia e il Monte Carmelo
la sua orma accompagnava la nostra
lo stesso sale per le olive la sera
E se anche madre ‘um5
era per noi la terra il sangue il fiato
nessuna madre sembra farci simili,
le vittime hanno nomi plurali e verbi all’infinito
Nelle anticamere nei corridoi nei vicoli di vento
tra le pareti e il vuoto
ci hanno affittato un’ora d’aria
sospesi come elio nei palloni, se voliamo ci sparano
“Niente scuola domani! Non ci sono più bambini a Gaza!”
“No school tomorrow! No more children in Gaza! (voce di un soldato israeliano)
“Ci sarà scuola domani e ancora domani. Ci saranno ancora bambini a Gaza.”
“Ghadan madrassa waba’da ghadin madrassa atfala Ghaza bākia.” (voce del popolo palestinese)
Le cicogne fanno nido a Gerico come a Gerusalemme
La marcia continuerà
sarà la marcia del disertore
un giorno cadrà l’alfiere poi il cavallo poi sarà la torre
Il tempo svuoterà le sue tasche
un anello di bisso e milar6
per un nuovo patto, le mani sul petto
Le nostre donne coi seni di latte e carezze
i nostri figli coi piedi di gioco per altre brezze
Niente filo spinato nessun muro
per la sposa e il melograno
le sue rose fioriranno la sera
e i carrubi inarcheranno la schiena
Il nostro vento farà bianche le case
nelle stanze ninne nanne e sospiri
gigli al mattino e mandorli in aprile
Sarà la parola degli oppressi senza lacca e prefazioni
sarà la notte prima dell’amore
l’attesa dei gelsomini l’ombra dei cedri
la luna nuova sul mare della storia.
Giusy Diquattro
Giusy Diquattro si è laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa, vive a Torino e insegna Lettere. Dal 2015 è raccoglitrice di storie di migrazione, tra gli ultimi racconti in ordine di tempo GuineNapoletano in Che lingua parla la paura?, Città di Torino (2023) e Il mare in cima. Storia di Salvatore in Adel Jabbar (a cura di), Nuovi volti e vecchi luoghi. Paesaggi migratori in Alto Adige/Südtirol, Alphabeta (2024). Alcune sue poesie sono state inserite in varie antologie tra cui: Enciclopedia di Poesia Italiana, vol. 8/2017, Fondazione Mario Luzi Editore (2018); Poesie per Dio. Quasi una preghiera, Edizioni La Zisa (2019); nel romanzo di Daniela Bignone, La tigre dal passo gentile. Dall’Afghanistan all’Italia, storia di Sherkhan, Citta Nuova (2020); nel saggio di Giuliana Bitelli, Il potere trasformativo delle immagini. Viaggi psicoterapeutici tra sogno, psicodramma, sand play therapy, Alpes Italia (2023). Insieme ad Adel Jabbar e Gianluca Gabrielli, è curatrice del volume Paesaggi interculturali nella terra di mezzo. Esperienze per una società plurale, Kanaga Edizioni (2022).
1 Mahmud Darwish, Un cavallo per lo straniero (a un poeta iracheno), in Undici pianeti, traduzione dall’arabo a cura di Silvia Moresi, Jouvence, Milano 2018, pag. 79.
2 Per approfondire sogni, speranze, progetti dei giovani di Gaza, cfr. Ahmed Alnaouq, Pam Bailey (a cura di), Non siamo numeri. Le voci dei giovani di Gaza, Nutrimenti, 2025.
3 Cfr. Mahmud Darwish, Oltre l’ultimo cielo. La Palestina come metafora, Epoché, Milano 2007, pp. 28-35.
4 Giusy Diquattro, Senza lacca e prefazioni, in AA. VV. Canti per la pace, Africa Solidarietà Edizioni, 2020.
5 Madre, in lingua araba
6 Fiore rosso del deserto palestinese










