Il Cimitrul Vesel di Săpânța (cioè “cimitero felice”, come viene chiamato) è un luogo molto singolare. A dimostrarlo basterebbe la potenza ossimorica del nome – in nessun altro modo potremmo definire l’espressione, almeno se inserita nel nostro contesto culturale.
L’idea di un cimitero gaio non trova un compartimento preciso nell’ordine di idee delle società occidentali. A dire il vero, irriverenza, ironia e scherzo sono stati allontanati sempre più anche dalle cerimonie e dai riti funebri orientali, e non è un caso che gli studiosi abbiano ipotizzato un collegamento diretto tra la peculiarità del cimitero e gli antichissimi rituali di inumazione indoeuropei, e in particolare Daci.

Un artista inconsapevole?

Sapere qualcosa di più sull’artista, Stan Ioan Pătraş, non aiuta molto. Nato nel 1908 a Săpânța, Pătraş non era certo il prototipo di intellettuale novecentesco: nasce da una famiglia di intagliatori di legno, e a 14 anni comincia a scolpire croci di quercia. Nel 1935 comincia a scrivere piccole poesie sulle croci tombali che gli vengono commissionate, e nel 1936 il suo stile è già consolidato.
Il fatto che Pătraş non ci abbia lasciato opere che potessero spiegare l’origine della sua ispirazione artistica rende più complicato il processo “filologico”. Ma allo stesso tempo, la sensazione che la sua fosse un’arte “preterintenzionale”, spontanea, permette alcune supposizioni. Pătraş morirà nel 1977, lasciando l’attività ad un discepolo, Dimitru Pop.

Nel concreto, il cimitero si compone di numerose croci di legno che presentano alcune caratteristiche comuni. I tre bracci superiori formano una sorta di capriata, mentre il braccio più lungo di ogni croce mostra una breve poesia in rima e una raffigurazione in rilievo. Lo stile, per quanto riguarda i colori e la composizione nel suo complesso, potrebbe essere definito naif, anche se ricorrono in modo evidente elementi e motivi tradizionali. In generale spiccano i colori blu, giallo, rosso, nero e i motivi geometrici.

Le interpretazioni formulate da studiosi ben più preparati del sottoscritto suggeriscono di cercare le radici dell’arte di Pătraş nel luogo in cui è nato e vissuto. La regione storica del Maramureș, divisa tra Romania e Ucraina, ha da sempre avuto una grande tradizione di scultura del legno: basti pensare, per esempio, alle chiese di legno della regione, oggi patrimonio dell’Unesco. Anche la sopravvivenza, comunque straordinaria, di questo tipo di arte funebre, non sembra così assurda in una regione relativamente isolata.

A stupire il visitatore, però, sono le piccole poesie di Pătraş. In una variante del romeno volutamente arcaica e dialettale, vengono descritte vita, morte, vizi e virtù degli inumati, corredati da una loro rappresentazione. Il tono è scherzoso, ironico, irriverente.

Alcuni componimenti

Sotto questa croce pesante
Giace la mia povera suocera
Se fosse vissuta tre giorni in più
Giacerei io e sarebbe lei a leggere.
Tu che passi di qui
Per favore cerca di non svegliarla
Perché se torna a casa
Mi rimprovererà ancora.
Ma mi comporterò sicuramente bene
Così non ritornerà dalla tomba.
Riposa qui, mia cara suocera

La grappa è un veleno puro
Che porta pianto e tormento
Anche a me li ha portati
La morte mi ha messo sotto i piedi.
Coloro che amano la buona grappa
Come me patiranno
Perchè io la grappa ho amato
Con lei in mano sono morto.
(Qui giace Dumitru Holdis, vissuto 45 anni, morto di morte forzata nel 1958)

Tra passato e presente

Ad oggi non sembra esistere una sola interpretazione che possa spiegare e ritrovare in toto le radici dell’arte di Pătraş. Particolarmente azzeccata è l’idea che le poesie funebri siano l’eredità più o meno intaccata di riti molto antichi. Scriveva Erodoto dei Geti, ossia la popolazione che abitava il territorio dell’odierna Romania nel VI secolo a. C.: «Ecco in che consiste la loro fede nell’immortalità. Essi credono di non morire, e che chi muore vada dal Demone Salmoxis. […]. Mandano ogni cinque anni uno di loro tratto a sorte, come messo a Salmoxis, ogni volta incaricandolo di recargli le loro richieste. Ed ecco come lo mandano. Alcuni, che hanno quest’incarico, se ne stanno con tre giavellotti; mentre altri afferrano le mani e i piedi dell’uomo che inviano, lo fanno ondeggiare, e lo scagliano in alto verso le punte dei giavellotti. Se viene trafitto e muore, ritengono propizia la Divinità; e se non muore, la colpa è del messo, che essi dichiarano malvagio. Gli muovono quest’accusa, e ne mandano un altro, al quale danno, mentre è ancora in vita, i loro incarichi.» Se la morte è soltanto un viaggio verso un’altra vita, non c’è motivo per cui il rito debba essere lugubre e intriso di tristezza.

Fortunatamente per noi non è necessario prendere alcun volo per leggere le poesie della Spoon River rumena: Bruno Mazzoni, professore dell’Università di Pisa, ha tradotto moltissimi degli epitaffi nel suo “Le iscrizioni parlanti del cimitero di Săpânța”. Con la stessa indiscrezione della poesia di Pătraş, anche a noi è concesso leggere, anche se in pochi versi, all’interno delle vite degli abitanti della piccola cittadina.

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