Il colore della mia pelle non è più un problema per me, ma per il mondo ancora lo è.
È difficile essere neri sapete, lo è da sempre e probabilmente lo sarà ancora a lungo; non tanto per il colore in sé ma per l’impatto nefasto che ha in una società prevalentemente bianca.
Da quelli come me non ci si aspetta altro che assertività e abnegazione, ci si aspetta che svolgiamo i lavori più umili e la maggioranza delle persone si stupiscono quando ci troviamo ad abbracciare e a svolgere con competenza carriere più auto realizzanti.
Si vedono occhi sgranarsi di fronte a un italiano fluido e sintatticamente corretto, proveniente da un paio di labbra carnose contornate da pelle color ebano.
Ma quand’è iniziata questa discriminazione, questa impalpabile ma onnipresente supremazia bianca? In quanti ancora dobbiamo morire prima di essere riconosciuti eguali a tutti gli altri esseri umani? Per quanto tempo ancora non riusciremo a respirare?
Io vivo in Italia dalla mia nascita e a prescindere dal fatto che lo Stato non mi riconosce come sua cittadina, non ho subito il razzismo puro e duro che altri hanno conosciuto. Certo non sono mancati exploit che avevano l’intento di farmi sentire inferiore e semplicemente “meno” dei bianchi, ma si va avanti a testa alta e a denti stretti. Oggi ho trentun anni, due figli, un libro pubblicato e una professione altamente umanizzante che amo molto: sono un’educatrice… lavoro coi bambini, che dopo lo stupore e la titubanza iniziale mi accolgono sempre nei loro cuori grandi.

La difficoltà di portare la pelle nera si è manifestata in adolescenza perché quando sei piccola ti guardano tutti con occhi adoranti e ti riempiono di complimenti. Quando cresci cominci a non andare più bene. Io cresciuta da una famiglia italiana, venivo scambiata per la badante di mia nonna quando passeggiavamo a braccetto, e chissà in quanti pensavano fossi l’amante di mio padre quando ci vedevano insieme, perché pensare che fossi sua figlia esulava dalla loro capacità interpretativa.
Essendo stata cresciuta da bianchi, ho dovuto imparare a fare i conti con la mia diversità e, ribadisco, non tanto per essa in sé, ma per il riscontro sociale che ha.
La mia auto accettazione ha attraversato diverse fasi, tra cui la negazione, il rigetto, la riscoperta ed infine il perdono.
Negazione perché tutte le volte che incontravo qualcuno come me facevo semplicemente finta di non essere come lui. Mi ricordo un episodio: al supermercato vengo avvicinata da un uomo, che evidentemente in Italia da poco, ancora non si era ambientato e non vedeva spesso persone della sua stessa colorazione; comincia a parlarmi in wolof (la lingua delle mie origini, la più diffusa in Senegal) e alla sua domanda «Sei senegalese anche tu?» Io rispondo in italiano con un secco «No!». Lui capisce che ho capito il suo discorso e torna all’attacco “sgridandomi” perché faccio finta di essere qualcuno che non sono disprezzando le mie origini. Al che frastornata tornai dalla mia mamma bianca che mi chiese «Perché non hai parlato con lui?» E io scossi la testa senza rispondere. Ad oggi mi chiedo perché ci si aspettasse da me che intavolassi una discussione con lui, perché la mia risposta lo avesse tanto ferito e stupito e perché io mi sentissi così sbagliata nella mia pelle.
L’emblema della mia fase di rigetto è la risposta che diedi durante un’attività extrascolastica in seconda media. Fu chiesto infatti a tutti come avremmo voluto essere ed io risposi: «più alta, bionda e bianca» ricordo che mi voltai subito verso la mia compagna di classe senegalese la quale non voleva credere che lo avessi veramente detto. Da piccola speravo inoltre che ciò che accadde al brutto anatroccolo, che crescendo si era trasformato in un cigno bianco, potesse in qualche modo succedere anche a me. Ora non so razionalizzare cosa significasse il colore bianco per me, ma sicuramente lo associavo ad un’ idea di imprescindibile giustizia, mentre il nero era sbagliato. Devo però dire che lo consideravo sbagliato su di me, non sugli altri neri con cui avevo relazioni, come mia madre e i miei fratelli, loro andavano benissimo neri, ero io che non riuscivo a concepirmi tale. È vero anche che nessuno mi aveva insegnato ad esserlo: come potevano i miei genitori bianchi insegnare alla bambina che sono stata, cosa significasse essere neri? Loro mi dicevano sempre e solo: «Non preoccuparti, che siamo tutti uguali», la vita mi ha insegnato che però non è così: se cammino dietro ad una signora, lei si volta, mi vede e stringe più forte a sé la sua borsa, lo fa perché pensa che i neri sono tutti ladri o semplicemente perché ha paura; se un uomo mi vede per strada che torno dal lavoro, accosta la macchina e mi chiede quanto voglio, lo fa proprio perché crede che non siamo tutti uguali, perché se ci fosse stata sua figlia al posto mio o qualcuna che le somiglia più di me, non agirebbe così.
Per non parlare di tutti quegli sguardi che ti fanno sentire sempre e comunque fuori posto. Sbagliata.
La fase della riscoperta è certo la più bella, perché è durante questa che ho cominciato e appreso ad amarmi in toto, e a non pensare più alla mia pelle come ad uno sbaglio, ma come una meravigliosa parte di me che mi caratterizza e mi colloca in una parte del mondo che mi appartiene e mi accoglie. Un giorno davanti allo specchio, giocando con un raggio di sole che filtrava dalla finestra, ho visto la mia pelle brillare di sfumature ramate, nocciola, mogano e ebano, ed ero bellissima. Il mio sorriso è sbocciato aperto e spavaldo sulle mie labbra e ho capito che ero giusta così, eccome se ero giusta, la mia pelle raccontava semplicemente la storia dei miei antenati, la mia pelle è memoria.
E dunque è subentrato il perdono, nei miei confronti in primis e poi nei riguardi di chi ha permesso che la mia vita fosse così piena di quesiti irrisolti. Piano piano ho dato voce a quelle domande e ho trovato le mie risposte che mi portano oggi ad essere una donna nera italiana che si accetta pienamente.

Ora non mi aspetto che il mondo faccia questo cammino e cominci a rivalutare le persone nere, ma sarebbe bello che considerassero almeno il semplice fatto che siamo neri perché veniamo dall’Africa, e che questo ha fatto sì che produciamo più melanina per proteggerci dal sole. E che quindi non c’è nessun meglio né peggio, che è solo un dato di fatto, e già sarebbe un buon punto di partenza.

Io vorrei che venisse meno la paura che come una strisciante melodia fa da sottofondo alle nostre vite: paura di non essere rispettati, visti per quello che siamo, per quel che abbiamo da apportare al mondo; paura di essere uccisi, così, per il semplice fatto di avere questo colore addosso; azzittiti perché quel che ha da dire “un negro”non interessa a nessuno.

Io vorrei che nel mondo che sto lasciando e resterà ai miei figli e ai figli dei miei figli, essere nero non fosse più un problema. Per nessuno.

Alimatou Sall

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