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Donald Trump sembra avere una vera passione per il momento imperialista nella storia degli Stati Uniti. Nel suo discorso di insediamento ha citato William McKinley, campione dei dazi e Presidente che ha guidato il Paese nella guerra ispano-americana. Con quella guerra gli USA istituirono un protettorato di fatto su Cuba, acquisendo il controllo di Porto Rico, Guam e delle Filippine (mentre nel 1898, l’anno di inizio della guerra, McKinley firmò l’atto di annessione delle Hawaii). Ora, nella National Security Strategy della sua seconda amministrazione, Trump aggiunge un nuovo “corollario” alla dottrina Monroe del 1823, implicitamente richiamandosi a Theodore Roosevelt, il cui corollario del 1904 aveva sancito la torsione in senso interventista di quella stessa dottrina.
Il dibattito sul documento strategico dell’amministrazione Trump, comprensibilmente, si è concentrato alle nostre latitudini sulle parti relative all’Europa. Va comunque ricordato che questi documenti devono essere letti con la necessaria cautela: si tratta fondamentalmente di manifesti, in cui la retorica ha spesso la meglio sul pur proclamato “realismo”. In questo caso, poi, l’attesa più lunga del previsto e le voci sulla presenza di più versioni del documento hanno portato molti osservatori a insistere su presunte divergenze all’interno dell’amministrazione. Ciò detto, la strategia di sicurezza nazionale rilasciata alla fine di novembre resta un testo istruttivo per chiunque voglia comprendere la direzione e gli obiettivi della politica internazionale della seconda Presidenza Trump. E la parte dedicata all’“emisfero occidentale” risulta in questo senso particolarmente interessante.
Qualche parola è tuttavia necessaria sulla cornice disegnata dal documento. A dispetto della retorica sulla grandezza e sul primato statunitense, si prende qui atto di quella che con diverso linguaggio abbiamo descritto negli scorsi anni come crisi dell’egemonia globale degli USA: l’errore delle élite dopo la fine della guerra fredda, si legge all’inizio del testo, è stato pensare che “il dominio permanente sul mondo intero fosse nell’interesse del nostro Paese”. Al contrario, è giunto il momento di riconoscere che “non ogni Paese, regione, tema o causa – per quanto nobile – può essere al centro della strategia americana”.
Si tratta quindi di definire un approccio selettivo, orientato da precise priorità e capace di accantonare il “globalismo” nel momento stesso in cui riconosce l’impossibilità dell’“isolazionismo”: ancora utilizzando un diverso linguaggio, l’obiettivo sembra essere quello di ridisegnare gli spazi della proiezione della potenza statunitense (politica ed economica) nel mondo. Dovranno essere grandi spazi, ma non coincidenti con il globo e con il mercato mondiale nella totalità della sua estensione.
Di questi spazi fa senz’altro parte l’“emisfero occidentale”, e il “corollario Trump” alla dottrina Monroe si propone di inaugurare una nuova stagione di protagonismo statunitense nei Caraibi e in America Latina. Lo schieramento navale di fronte alle coste del Venezuela, gli omicidi extragiudiziali giustificati con la guerra alla droga, le pressioni sul governo colombiano del Presidente Petro, gli interventi a favore di Bolsonaro in Brasile e soprattutto il decisivo sostegno a Milei in Argentina prefigurano i tratti fondamentali di questo nuovo protagonismo.
Se all’inizio del secolo l’impegno militare degli USA in Afghanistan e in Iraq aveva in qualche modo aperto gli spazi in cui – sospinti da formidabili movimenti sociali – erano sorti i “nuovi governi progressisti” nella regione, ora l’allineamento con l’amministrazione Trump viene presentato come il criterio fondamentale attorno a cui riorganizzare gli equilibri politici latinoamericani.
Una riorganizzazione della presenza militare statunitense nell’“emisfero occidentale” è espressamente indicata nel documento come obiettivo da perseguire. Il “corollario Trump” alla dottrina Monroe, tuttavia, è espresso in termini più generali, secondo la logica del “reclutare ed espandere” (Enlist and Expand) la cerchia dei partner affidabili. “Stabilità e sicurezza” vanno di pari passo, nella strategia di Trump, con l’apertura di nuovi terreni di cooperazione commerciale e più in generale economica con l’obiettivo prioritario di “rafforzare le catene di fornitura critica” legate all’industria estrattiva.
L’enfasi sul controllo dei confini, sulla lotta alla migrazione e alla droga è sufficiente a delineare un ideale di riorganizzazione dell’“emisfero occidentale” secondo la logica in ultima istanza militare del blocco, con la proliferazione di regimi di guerra a protezione degli “affari”. La prospettiva di un approfondimento e di un’ulteriore espansione dell’estrattivismo contribuisce a indicare come necessaria, secondo la dottrina di Trump, una torsione autoritaria che chiuda gli spazi di espressione dei movimenti sociali e imponga nuove forme di violento disciplinamento delle forme di vita insubordinate che negli ultimi anni hanno dato corpo alle lotte transfemministe, indigene e ambientali su scala regionale. Il radicamento di questi movimenti, di queste lotte e di queste forme di vita nelle società latinoamericane costituisce il primo limite che si frappone agli obiettivi dell’amministrazione statunitense.
L’importanza assegnata nella strategia di sicurezza nazionale all’“emisfero occidentale” non risulta del resto in alcun modo sganciata dalla più generale cornice della competizione con la Cina. Al contrario, il documento insiste sul fatto che “concorrenti extra-emisferici hanno compiuto progressi significativi nel nostro Emisfero” e considera l’assenza di una “seria reazione” un altro “grande errore strategico americano degli ultimi decenni”. Il riferimento alla Cina, pur non menzionata, è trasparente, ed è reso ancora più esplicito quando si afferma che gli Stati Uniti dovrebbero “fare ogni sforzo per estromettere le aziende straniere che costruiscono infrastrutture nella regione”.
La grande crescita della presenza cinese in America latina è avvenuta infatti prioritariamente attraverso la costruzione di grandi infrastrutture strategiche (ferrovie, strade, reti energetiche), di cui il grande porto peruviano di Chancay, sviluppato e finanziato dal conglomerato statale cinese COSCO Shipping Ports, costituisce una perfetta esemplificazione.
Inaugurato lo scorso anno, il porto di Chancay apre nuove rotte per i traffici attraverso il Pacifico, riducendo significativamente i tempi di transito tra America latina e Asia. Anche a proposito della presenza cinese, pur del tutto diversamente rispetto ai movimenti e alle lotte sociali, si può dunque parlare di un radicamento infrastrutturale, e più in generale di una spazialità economica (capitalistica) che non coincide con quella (geo)politica.
Il documento di dottrina strategica della seconda amministrazione Trump riconosce che “l’influenza straniera sarà in certi casi difficile da rovesciare”, ma riconduce questa circostanza alle affinità politiche di alcuni governi latinoamericani con “attori stranieri”: come tuttavia dimostra l’esempio del porto di Chancay (il Perù, tolta la breve parentesi della Presidenza Castillo, ha sempre avuto governi liberali e autoritari), non sembra essere questa la logica degli investimenti cinesi.
Ecco, dunque, un secondo limite di fronte a cui si trova la dottrina Trump nell’“emisfero occidentale”. Può questo limite essere superato? Difficile, almeno nel breve periodo, che questo avvenga attraverso la competizione economica. Viene dunque da chiedersi se il riferimento iniziale al momento imperialistico nella storia statunitense non autorizzi l’ipotesi che la guerra – nelle forme molteplici, ibride e non convenzionali che oggi assume – possa essere considerata lo strumento per forzare l’allineamento dell’America latina al blocco che Trump aspira a formare e guidare.
L’imponente operazione militare contro il Venezuela assumerebbe in questo senso un significato di carattere generale. Il “Presidente della Pace”, come la stessa strategia di sicurezza nazionale lo definisce, starebbe allora ponendo le basi per nuove guerre (non certo limitate all’America latina), per cui invoca una “mobilitazione nazionale” con l’obiettivo dell’ammodernamento e del potenziamento dei sistemi d’arma, di difesa e di offesa. È inutile dire che questa mobilitazione non potrà che vedere protagoniste imprese come le grandi piattaforme infrastrutturali, le cui tendenze alla costruzione di monopoli sembrano realizzare un altro dei presupposti delle teorie classiche dell’imperialismo.
Visti attraverso la lente dell’“emisfero occidentale”, guerra e imperialismo appaiono come tendenze in atto, per quanto non incontrastate e anzi destinate a scontrarsi con potenti limiti – a cui va almeno aggiunto il fatto che negli stessi Stati Uniti esistono interessi e movimenti che le rifiutano.
Anche per noi, in Europa, è bene essere consapevoli delle poste in palio nell’attuale congiuntura, che la dottrina Trump illumina di una luce sinistra. Qui, la strategia che abbiamo definito nei termini della costruzione di un blocco sembra passare attraverso la scomposizione dell’Unione europea, in una logica di “reclutamento ed espansione” che punta a includere in modo subalterno singoli Paesi, attraverso una torsione autoritaria, la restaurazione di una presunta “civiltà” patriarcale e reazionaria e una militarizzazione, che – in diverse condizioni – risuonano con quanto si è detto a proposito dell’America latina.
Solo il rifiuto di massa di questa prospettiva, in Europa e altrove nel mondo, può aprire vie di fuga dall’incubo carcerario di un mondo diviso in blocchi, dove la logica del capitale e quella della guerra appaiono sempre più strettamente intrecciate.










