Mostafa​ è morto la mattina di sabato 27 dicembre, nell’ex fabbrica OSI-Ghia in corso Dante a​ Torino​. Le fonti riportano che Mostafa abbia un’età compresa tra i 50 e i 70 anni, che sia di​ ​nazionalità marocchina e che da circa sette anni si fosse stabilito nell’ex complesso​ industriale​ insieme a una ventina di altre persone. I compagni si sono allarmati quando l’uomo aveva smesso di rispondere e hanno chiamato i soccorsi, ma Mostafa era deceduto.​ ​Dai primi accertamenti, le cause della morte sembrerebbero naturali; i compagni riportano​ alle​ autorità la rigidità delle temperature delle notti natalizie. Ma cosa c’è di ​naturale​ ​nella​​ ​morte di un uomo in un contesto simile?​

L’accezione​ medica “cause naturali” è quasi paradossale nel definire la morte di un​ uomo​ che ha trascorso diversi anni della sua vita in un edificio industriale dismesso. Il​ ​freddo non è una calamità imprevedibile, così come non lo è il deterioramento fisico di chi​ ​per anni dorme su un pavimento di cemento ed erba senza servizi né protezioni.​

​La loro casa, il triangolo industriale tra Corso Dante e la stazione ferroviaria di Porta​ ​Nuova, un tempo ospitava le vecchie Officine Stampaggi Industriali e la carrozzeria Ghia. Il​ luogo​ è abbandonato da una quindicina d’anni, ma per non tornare troppo indietro nella​ ​storia basta guardare agli avvenimenti dello scorso 2 dicembre. Lo stabile aveva visto​ l’intervento​ dei Vigili del Fuoco per un incendio di modeste dimensioni e due degli abitanti​ ​erano stati portati al vicino Ospedale Mauriziano. Sembra che le loro condizioni non fossero​ ​gravi. Quale sia stata la fonte dell’incendio, accidentale o un fuoco per scaldarsi, è una​ domanda​ che passa in secondo piano di fronte alla consapevolezza delle condizioni di​ ​pericolosità dell’edificio e della presenza di persone che vi trovano riparo.​

Il​ fatto che un tempo l’edificio ospitasse uno degli ingranaggi della grande e aurea​ macchina​ Fiat offre un ulteriore spunto di riflessione. Ciò che era uno spazio di produzione​ ​di lavoro, ricchezza e identità urbana – il nostro grande vanto torinese dell’età dell’oro della​ Fiat​ – oggi è teatro della più estrema esclusione. La questione non è solo urbanistica, ma​sociale​. Spazi abbandonati presi da persone abbandonate. Cosa riusciamo a garantire agli​ ​abitanti più fragili?​

​La morte di Mostafa è stata causata da una violenza strutturale: una violenza indotta,​ ​silenziosa e soprattutto sistemica. Per anni l’unica possibilità è abitare in edifici che​ pullulano​ di rischi per la salute: malattie infettive, fumi tossici, abuso di alcol e sostanze,​ ​malattie cardiovascolari, ipotermia e colpi di calore, disturbi mentali, aggressioni e rapine.​

Questo​ è un elenco mescolato di cause e conseguenze sanitarie, ambientali e sociali. In​ ​queste condizioni, il rischio è dunque​​ sistemico. Non è una scelta individuale ma il risultato​ ​di una società che tollera condizioni di vita prive della maggior parte dei diritti umani fondamentali​. La stigmatizzazione e le barriere burocratiche non sono solo le conseguenze​ ​della condizione dei senza fissa dimora ma fattori attivi che contribuiscono a mantenerla e ad​ aggravarla,​ in un circolo vizioso di marginalità sociale. La burocrazia è pensata per cittadini​ ​stabili e in queste vesti finisce per creare esclusione. L’estremo disagio delle persone senza fissa​ dimora viene dunque cronicizzato, con effetti cumulativi sulla salute fisica e mentale. La​ casa​ non è un merito o un premio finale: il diritto all’abitare rientra tra i diritti fondamentali.​

Siamo​ a conoscenza della morte di Mostafa perché è diventata un fatto di cronaca. Le​ vite​ di queste persone rimangono invisibili finché il loro destino non si consuma​ nell’emergenza. In una città come Torino, in cui la presenza di persone senza fissa dimora è​ un​ fenomeno noto e documentato, continuare a considerare questi episodi come fatalità​ significa​ non solo ignorarne e negarne l’urgenza, ma affermare che esistano cittadini di serie​ A​ e B e addirittura Z. È su questa frattura sociale che dovremmo risvegliare una​ ​responsabilità collettiva.​