L’insegnamento nelle lingue coloniali invece che nella lingua madre è uno dei principali fattori del fallimento scolastico precoce in molti Paesi africani. Secondo gli esperti studiare nella lingua madre migliora risultati e continuità scolastica, ma resistenze politiche, sociali e familiari mantengono marginali le lingue locali.
Gli esperti parlano di “ritardo cognitivo” (o “lag cognitivo”): un bambino deve prima decodificare una lingua straniera – e poi decodificare la nozione stessa, che sia un concetto matematico o scientifico. È un doppio sforzo che spiega gran parte del fallimento scolastico precoce. Insegnare nella lingua madre o in una lingua locale nei primi anni di scuola primaria migliora in modo significativo i tassi di successo, la comprensione dei concetti e la conservazione degli studenti.
Molti decenni dopo l’indipendenza, la maggior parte dei Paesi africani affronta ancora una profonda crisi dell’apprendimento: in Africa subsahariana solo circa un terzo degli studenti arriva a completare la scuola secondaria, e i rapporti dell’UNESCO mostrano che solo 1 bambino su 10 conclude la primaria con competenze sufficienti per proseguire, il che significa che decine di milioni di alunni passano anni in classe senza imparare abbastanza per continuare davvero a studiare.
Secondo diversi analisti, quando i bambini africani possono studiare nella loro lingua madre, la scuola sembra funzionare meglio.
Una ricerca citata dalla Global Campaign for Education, basata su 160 gruppi linguistici in 22 Paesi in via di sviluppo, mostra che quando i bambini imparano nella loro prima lingua si iscrivono più spesso, restano più volentieri a scuola e ripetono meno gli anni. In Mali, per esempio, ricerche sostenute da RTI/World Bank indicano che gli alunni che studiano nella lingua madre sono circa cinque volte meno soggetti a ripetere l’anno rispetto a quelli che seguono corsi solo in francese.
Questo conferma ciò che sottolinea anche l’UNESCO: i bambini non falliscono perché “meno intelligenti”, ma perché il sistema li obbliga prima a imparare una lingua e solo dopo a imparare i contenuti.

Circa il 40% della popolazione mondiale non ha accesso all’istruzione in una lingua che effettivamente parla o capisce. Oggi esistono circa 7.000 lingue parlate in tutto il mondo, ma molte stanno sparendo a ritmi preoccupanti. E ogni volta che muore una lingua, se ne va con lei un intero patrimonio culturale e intellettuale.
Eppure nella maggior parte dei Paesi africani queste lingue restano relegate a semplice materia scolastica non strategica, quando invece usarle come lingua d’insegnamento sarebbe molto più efficace, soprattutto dove i genitori non padroneggiano il francese o l’inglese.
E qui emerge un paradosso stridente: spesso sono proprio i genitori a opporsi all’educazione bilingue. Il ragionamento è pragmatico, quasi inevitabile: “Inglese o francese sono il passaporto per un futuro migliore”. E in effetti, chiedere a un genitore di puntare sulla lingua locale equivale a chiedergli di giocarsi il destino dei figli su una scommessa, mentre le regole del gioco economico e sociale rimangono esattamente le stesse di sempre. Così le lingue africane restano in uso e sono padroneggiate nella vita sociale, nelle strade, nei mercati, ma sono quasi completamente assenti dalla conoscenza scolastica.
In Senegal, l’introduzione delle lingue nazionali a scuola è ampiamente presentata come una scelta pedagogica, ma anche politica. Si allinea con le raccomandazioni dell’UNESCO, che sostiene l’educazione bilingue o plurilingue come mezzo per ridurre il fallimento accademico e rafforzare l’inclusione. Il Ministero dell’Istruzione di Dakar vorrebbe integrare tutte le lingue entro il 2028, ma certo non sarà facile.
In Tanzania la scuola pubblica usa il kiswahili come lingua di insegnamento dalla materna fino alla fine della primaria, mentre l’inglese entra come materia e diventa lingua principale solo alla secondaria e all’università. Questo passaggio brusco verso l’inglese sembra creare non poche difficoltà: molti alunni faticano proprio al momento della transizione, tanto che negli ultimi anni si sta discutendo se estendere il kiswahili anche alla secondaria per ridurre il “salto linguistico”.

L’Etiopia è uno dei casi più citati di politica esplicita di istruzione nella lingua madre: dal 1994 la legge permette alle regioni di usare le proprie “lingue nazionali” come mezzo di insegnamento nella primaria e oggi sono state adottate come lingue di scuola oltre 20-25 idiomi locali, non solo l’amarico. In molte regioni i bambini imparano a leggere, scrivere e studiare le materie di base nella loro lingua fino a una certa classe, poi passano all’inglese come lingua principale di insegnamento, con tempi diversi a seconda della regione.
In Sudafrica invece la Costituzione stessa riconosce 11 lingue ufficiali e la politica scolastica incoraggia l’uso della lingua di casa nei primi tre anni di scuola primaria, con l’introduzione graduale dell’inglese come seconda lingua e poi come lingua dominante nelle classi successive. Le ricerche sulle classi bilingui nella cosiddetta “foundation phase” mostrano che quando zulu, xhosa o altre lingue africane vengono usate in modo sistematico insieme all’inglese, i risultati in lettura e comprensione migliorano, ma servirebbero forti investimenti per materiali, terminologia disciplinare e formazione docenti nelle lingue locali.
Quello che emerge sull’insegnamento nelle lingue locali non è solo una questione tecnica di didattica, ma un nodo irrisolto che sta al cuore della costruzione statale postcoloniale: chi decide quale lingua ha valore?
Questi percorsi rivelano una tensione mai risolta: le élite africane, formate nelle lingue coloniali, hanno costruito sistemi di potere che si reggono anche su quella barriera linguistica. Il francese, l’inglese, il portoghese non sono solo lingue d’istruzione, sono anche a modo loro certificati di appartenenza all’élite del proprio Paese.
Una recente notizia arriva dal Mali: nell’ottobre di quest’anno il Ministero dell’Istruzione ha sospeso in alcune classi l’insegnamento della Rivoluzione francese del 1789 per dare più spazio alla storia degli imperi africani e alle lotte anticoloniali.










