Il Giorno 10 dicembre, in occasione della Giornata Internazionale dei Diritti Umani, le reti #digiunogaza e Sanitari per Gaza hanno indetto una giornata di mobilitazione tra i sanitari, negli ospedali, per prendere posizione contro la detenzione illegale e disumana, portata avanti senza alcuna accusa formale, di 93 operatori sanitari palestinesi nelle carceri israeliane. Questa mobilitazione segue quella, indetta dalle stesse reti, alla fine di ottobre, in cui venivano commemorati i quasi 1700 operatori sanitari assassinati in questi due anni di genocidio.

In quest’ultima occasione di mobilitazione, oltre a lanciare una campagna di raccolta fondi per Emergency (per chi fosse interessato: https://insieme.emergency.it/fundraisers/digiunogaza) e pubblicizzare un convegno di sanitari che si terrà il 31 Gennaio a Bologna dal titolo “Distruzione di un sistema sanitario, genocidio di un popolo. Evidenze, priorità e testimonianze dalla Striscia di Gaza”, abbiamo distribuito dei cartellini con nomi, volti e qualifica di alcuni di questi operatori detenuti, chiedendo di “adottarli”, ovvero di portarne il cartellino sull’abito di lavoro per stimolare domande e interesse, di conoscerne le informazioni che si possono reperire e di tentare pressioni semplici ma costanti, come inviare e-mail e richieste agli organi di competenza nazionali e internazionali per chiederne il rilascio.

Io, ad esempio, mi sono preso carico di Marwan Al-Hams, anestesista e direttore degli ospedali da campo nella Striscia di Gaza, oltre che dell’ospedale Abu Youssef Al-Najjar a Rafah, che costituisce un esempio lampante dell’abominio perseguito dall’entità sionista: a luglio del 2025, Marwan è stato attirato in un’imboscata con la scusa di riprese per un documentario, e sequestrato da militari israeliani – è stato diffuso persino un video di quei tragici momenti – per essere sottoposto a interrogatori mirati a localizzare la salma di un militare israeliano. Durante questa azione, due giornalisti palestinesi presenti sul luogo sono stati colpiti, e uno è deceduto. Poiché non sono riusciti a ottenere informazioni, il 2 ottobre IDF ha sequestrato, per sottoporlo ad ulteriori pressioni, anche la figlia infermiera, la quale è stata rilasciata solo a fine novembre.

Alcune riflessioni riguardo alla mobilitazione dei sanitari: nella storia recente, almeno nel Sud Italia, il personale sanitario, per diverse motivazioni, raramente si è reso protagonista di azioni di protesta o prese di posizione politico-sociali, soprattutto riguardanti questioni internazionali. L’ennesimo riconoscimento che la lotta palestinese ha liberato alcune dinamiche vitali viene proprio dall’ampia partecipazione che hanno ottenuto in questo ambiente le mobilitazioni di ottobre.

Vedere intorno a me, in una sera piovosa a Palermo, oltre 50 colleghi – nel mio ospedale, ma centinaia solo nella mia città – che nonostante i turni di lavoro massacranti e le condizioni lavorative spesso squalificanti hanno trovato la forza di scendere in strada, riunirsi e mobilitarsi, mi ha stupito profondamente e mi ha dato la spinta necessaria per decidere di impegnarmi seriamente e con costanza in una lotta che richiede dedizione e tante energie.

Ma, come era prevedibile, la mobilitazione di dicembre è stata meno partecipata. Complici il silenzio mediatico, gli attacchi strumentali e l’illusione di una tregua che non è mai partita, oltre che la ridotta capacità di attenzione legata alle dinamiche contemporanee dell’informazione, i sanitari che hanno partecipato, così come il numero di ospedali aderenti, si è ridotto.

Tuttavia, la delusione si è trasformata rapidamente in disillusione. E questa, essendo la negazione dell’illusione, è sacrosanta, perché ti forza a fare i conti con la realtà invece di crogiolarti nell’autoindulgenza o nella glorificazione dei risultati momentanei. E in questa realtà, ho trovato colleghi che hanno sfidato il timore di essere pochi e scherniti, che hanno lasciato ai nonni figli piccoli, o hanno preso i mezzi pubblici in una città dissestata per esserci, pur avendo appena smontato da un duro turno di notte o dovendolo affrontare qualche ora dopo.

Abbiamo trovato l’appoggio di altri pezzi di società civile, studenti, donne contro la guerra, con cui pensare iniziative comuni e supporti reciproci. In qualche maniera, questo momento di calo dell’attenzione mediatica può essere reso utile per selezionare gli elementi che hanno più a cuore la causa, e che possono mettere a frutto le proprie energie in maniera più attenta e mirata, oltre che spingere questi elementi a creare reti, oggi più che mai necessarie per un’azione concreta ed efficace. Inoltre, sono moltissime le persone che, nonostante non si mobilitino con i loro corpi per prendere posizione, appoggiano a vari livelli le istanze a favore del popolo palestinese, e anche queste persone possono costituire una risorsa, come nodi di condivisione delle iniziative, come amplificatori dei discorsi di liberazione, come fonti energetiche che ci supportano emotivamente nell’azione quotidiana.

Rodrigo Nunes ha scritto che, se il movimento antagonista alla mortificazione che ammorba la nostra società vuole avere delle chances contro questo Leviatano, deve ripensarsi come ecosistema di movimenti e singoli individui, ognuno dei quali porta specificità, modalità e contributi che devono essere diversi per poter essere efficaci, convergendo poi sull’obiettivo, che è la giustizia e l’equità. I movimenti per la liberazione della Palestina si stanno unendo a quelli che chiedono giustizia sociale, che contrastano la militarizzazione della società, che lottano contro la discriminazione in ogni forma, che si oppongono alla distruzione dell’ambiente che ci ospita. La disillusione può essere il primo passo verso la rivoluzione.