1. La decisione del Consiglio dell’Unione europea sui “paesi terzi sicuri”, senza il voto del Parlamento europeo, non è un atto legislativo immediatamente esecutivo, e da sola non legittima i centri di detenzione esternalizzati in Albania, che rimangono privi di base legale ed in contrasto con quanto deciso dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del primo agosto scorso in materia di effettività dei diritti di difesa e sul ruolo della giurisdizione.
Lo scorso aprile la Commissione europea aveva approvato una proposta di Regolamento contenente una lista di “paesi di origine sicuri”, che avrebbe dovuto emendare il nuovo Regolamento Procedure 2024/1348 , che permetterebbe la designazione, sia a livello unionale che nazionale, di paesi terzi sicuri e di paesi di origine sicuri, con eccezioni territoriali ed eccezioni per categorie identificabili di persone.
La proposta condivisa dal Consiglio europeo dei ministri dell’interno degli Stati membri mira ad integrare il nuovo Regolamento Procedure prima ancora della sua entrata in vigore, prevista per il prossimo mese di luglio, nel quadro della prima applicazione del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo del 2024 con specifico riferimento alle procedure di rimpatrio. Una proposta che, ad esempio nel caso dell’Egitto, non tiene conto della situazione di particolare pregiudizio che particolari gruppi sociali, come ad esempio le persone LGBTQI+ possono subire in questi paesi. Si va a svuotare in questo modo la portata effettiva del diritto di asilo. Oltre alla cancellazione del diritto alla protezione, si va anche nella direzione di rendere più veloci le espulsioni, e di esternalizzare le procedure di allontanamento forzato, con il coinvolgimento di paesi terzi ritenuti “sicuri”.
Secondo il nuovo Regolamento procedure, un paese può essere considerato terzo sicuro in ragione della sua presenza nella lista elaborata a livello dell’Unione o di un singolo stato membro, ma anche al di fuori della presenza del singolo paese all’interno di una lista ed anche, quando vengano stipulati accordi bilaterali, se non ha sottoscritto o non applica la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
L’art. 59 del Regolamento procedure fornisce la nozione di “paese terzo sicuro”. Un paese terzo può essere designato paese terzo sicuro soltanto quando in tale paese: non sussistono minacce alla vita e alla libertà dei cittadini stranieri per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale; non sussiste per i cittadini stranieri alcun rischio reale di danno grave quale definito all’articolo 15 del regolamento (UE) 2024/1347; i cittadini stranieri sono protetti dal respingimento conformemente alla convenzione di Ginevra e dall’allontanamento in violazione del diritto alla protezione da torture e trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale; esiste la possibilità di richiedere e, se sono soddisfatte le condizioni, di ricevere la protezione effettiva quale definita all’articolo 57 dello stesso Regolamento procedure. Inoltre, la designazione di un paese terzo come paese terzo sicuro a livello sia dell’Unione che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili.
In realtà, in base al Considerando 48 del Regolamento procedure, che adesso si vorrebbe emendare perché ritenuto troppo “garantista”, “Gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di applicare il concetto di paese terzo sicuro come motivo di inammissibilità qualora esista la possibilità che il richiedente richieda e, se le condizioni sono soddisfatte, riceva una protezione effettiva in un paese terzo in cui non sussistono minacce alla sua vita o alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale, in cui non è oggetto di persecuzione né esposto a un rischio effettivo di danno grave ai sensi del regolamento (UE) 2024/1347 a ed è protetto dal respingimento e dall’allontanamento in violazione del diritto alla protezione da torture e trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti sancito dal diritto internazionale.
Tuttavia, le autorità accertanti degli Stati membri dovrebbero conservare il diritto a valutare nel merito una domanda anche qualora siano soddisfatte le condizioni per considerarla inammissibile, in particolare quando sono costrette ad agire in tal senso conformemente ai loro obblighi nazionali. Uno Stato membro dovrebbe poter applicare il concetto di paese terzo sicuro soltanto se c’è un collegamento tra il richiedente e il paese terzo sulla cui base sarebbe ragionevole che il richiedente si recasse in tale paese. Il collegamento tra il richiedente e il paese terzo sicuro potrebbe essere considerato stabilito in particolare qualora membri della famiglia del richiedente siano presenti in tale paese o qualora il richiedente si sia stabilito o abbia soggiornato in tale paese.
Criteri di collegamento che adesso i governi dell’Unione europea, a maggioranza, ritengono troppo vincolanti per le loro politiche migratorie basate sulla cancellazione sostanziale del diritto di asilo, sulla detenzione amministrativa, e sui rimpatri con accompagnamento forzato, pure verso paesi diversi da quelli di origine.
2. Secondo quanto deciso adesso dal Consiglio europeo, invece, “per velocizzare effettivamente i rimpatri forzati e garantire al contempo il diritto di asilo sarebbe necessario che «vi sia un accordo o un’intesa con un Paese terzo sicuro che assicuri che la richiesta di asilo della persona sarà esaminata in quello Stato». Sembra in sostanza che sulla base di accordi bilaterali si possano derogare le garanzie dei diritti fondamentali previste dalle Convenzioni internazionali, e dagli stessi Regolamenti europei, come purtroppo si verifica di fatto da anni, basta pensare agli accordi conclusi dall’Italia non solo con la Libia, ma anche con la Tunisia e l’Egitto.
Ma si tratta di prospettive tutte da verificare, e di valutazioni che non potranno sfuggire ai controlli giurisdizionali, al punto da svuotare del tutto i diritti di difesa riconosciuti dalla Carta UE dei diritti fondamentali e dalle Costituzioni nazionali. In questa prospettiva non si può affermare, come sostiene il ministro dell’interno Piantedosi, che i centri di detenzione in Albania costituiscano “il primo esempio di quegli hub per il rimpatrio che sono citati da uno dei regolamenti”, almeno fino a quando resteranno sotto la giurisdizione concorrente italiana ed albanese. Un “modello” di esternalizzazione che non è sostenibile, non solo sotto il profilo economico, ma anche dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali delle persone che nei centri di detenzione albanesi non potrebbero godere delle stesse tutele che spettano loro in territorio italiano, ed europeo.
In base alla Direttiva rimpatri (2008/115/CE) ancora vigente, che resterà in vigore fino all’approvazione definitiva nel 2027 del nuovo Regolamento sui rimpatri, i rimpatri possono avvenire soltanto dal territorio degli Stati membri, si prevede infatti inequivocabilmente come “esecuzione dell’obbligo di rimpatrio”, ,,,, “il trasporto fisico fuori dallo Stato membro” (art 3 par. 5). Inoltre, “al fine di agevolare la procedura di rimpatrio si sottolinea la necessità di accordi comunitari e bilaterali di riammissione con i paesi terzi. La cooperazione internazionale con i paesi d’origine in tutte le fasi della procedura di rimpatrio è una condizione preliminare per un rimpatrio sostenibile” (Considerando 7).
Senza nuovi accordi di riammissione con i paesi terzi e con i paesi di origine, e senza la loro effettiva attuazione, che non è certo all’orizzonte, al di fuori dei rapporti bilaterali già esistenti, il numero delle persone in condizioni di irregolarità effettivamente allontanate dal territorio italiano, ed europeo, non sembra destinato ad aumentare. Mentre se si voranno “anticipare” singoli aspetti normativi dei nuovi Regolamenti, prima che questi entrino in vigore, si moltiplicheranno i casi di detenzione informale ed arbitraria in frontiera, e nei luoghi che, con una finzione giuridica, si assimilano alla frontiera (con la finzione di non ingresso nel nuovo Regolamento sullo screening), per i quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Come se i corpi di persone sottoposte alla giurisdizione italiana e in stato di detenzione non si trovassero in un territorio che si asserisce soggetto a questa stessa giurisdizione.
3. In ogni caso la questione dei “paesi terzi sicuri” non si può confondere con la problematica dei “paesi di origine sicuri”, su cui si è pronunciata la Corte di Giustizia UE. Le nuove regole sulle procedure di espulsione e sul trattenimento amministrativo non possono svuotare la portata del diritto di asilo, nelle sue diverse formulazioni dettate dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Costituzione italiana. In nessun caso le regole di accesso alla procedura di asilo e di riconoscimento effettivo del diritto alla protezione potranno essere sovvertite per effetto di scelte politiche motivate con la difesa dei confini e il contrasto dell’immigrazione irregolare, sulla base di accordi bilaterali, ed in futuro multilaterali, con paesi terzi. Dovranno comunque rispettarsi il sistema gerarchico delle fonti normative (art.117 Cost.) ed il principio di indipendenza della magistratura che sarà chiamata a pronunciarsi in materia.
Adesso si apre una fase di negoziati con il Parlamento europeo dove le divisioni tra gli Stati membri su questa materia, emerse già all’interno del Consiglio UE, Spagna, Grecia, Francia e Portogallo hanno votato contro, potrebbero allontanare l’entrata in vigore dei nuovi Regolamenti. Che comunque non danno copertura alle prassi di deportazione di immigrati irregolari dall’Italia in Albania, vietate dalla Direttiva rimpatri 2008/115 che rimane in vigore fino a quando Parlamento Ue e Consiglio non troveranno un accordo per la sua abrogazione, con la introduzione di una nuova normativa sui return hubs. Ma anche su questo un accordo a Bruxelles sembra ancora lontano per i diversi rapporti degli Stati membri con i paesi terzi. Fino ad allora i centri di detenzione in Albania resteranno al di fuori dello Stato di diritto, e la loro residua attività potrebbe anche essere fonte di ulteriore responsabilità contabile per tutte le autorità politiche e amministrative che ne imporranno il funzionamento.










