Sulle colline della Cisgiordania occupata, ogni giorno si consuma una strana e dolorosa ironia: gli stessi coloni israeliani che si appropriano della terra palestinese, bruciano i nostri ulivi e sparano ai nostri contadini, ora imitano proprio quello stile di vita che stanno distruggendo.

Come contadino palestinese, ogni ottobre, quando passa il Giorno della Croce (Youm Al-Salib), cadono le prime gocce di pioggia e il colore delle olive comincia a cambiare, so che la stagione è arrivata. L’aria si fa pesante per l’umidità e la promessa di nuovo olio. Prendo i miei attrezzi, raduno la mia famiglia e scendo nei campi. Sono rituali antichi, tramandati da mia madre, che conosceva a memoria i segni della terra: quando potare, quando raccogliere, quando riposare.

La terra profuma di timo e terra bagnata; gli uccelli cantano come se benedicessero la stagione. Per un attimo sembra prevalere la pace, finché il mio sguardo non cade sulla cima della collina e vedo i coloni accampati sul crinale, con i fucili in spalla, che giocano a fare i contadini negandoci il diritto di coltivare la nostra terra. È come uccidere la vittima e poi partecipare al suo corteo funebre.

Occupazione e appropriazione culturale

Occupano le cime delle montagne che sovrastano i nostri villaggi, dove un tempo i pastori pascolavano le loro greggi e gli agricoltori coltivavano i terrazzamenti scavati dai loro antenati. Hanno deturpato il paesaggio autoctono della nostra terra natale. Odiano noi, il popolo di questa terra, disprezzano la nostra lingua, la nostra musica e la nostra cultura, eppure imitano le nostre tradizioni rurali come se fossero le loro.

Negli ultimi anni, gli avamposti illegali dei coloni sono proliferati in tutta la Cisgiordania. Da queste colline, i coloni molestano i pastori, rubano i raccolti di olive e cacciano le famiglie dalle loro terre ancestrali. Secondo B’Tselem e ARIJ, la violenza dei coloni ha raggiunto livelli record: migliaia di attacchi ogni anno contro agricoltori, case e frutteti palestinesi. L’OCHA delle Nazioni Unite ha documentato un aumento di oltre il 45% degli attacchi rispetto allo scorso anno. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro terre. L’obiettivo è chiaro: cancellare la popolazione indigena, rubando non solo la terra, ma anche lo stile di vita, il folklore e la cucina.

Eppure, su quelle stesse colline, i coloni celebrano matrimoni sotto gli ulivi, raccolgono le olive a mano, cucinano la shakshuka – pomodori fritti in olio d’oliva con uova – su fuochi a legna, preparano il tè in teiere di latta annerite e suonano lo shibabeh, il flauto che risuona nei villaggi palestinesi da Jenin a Hebron. Indossano camicie di cotone grezzo, costruiscono piccoli giardini – hakura – e si comportano come se avessero ereditato un legame con la terra che hanno solo rubato.

Lo chiamano “ritorno alla natura”, ma è una messinscena, un tentativo disperato di fabbricare un senso di appartenenza dove non esiste. La loro imitazione non è ammirazione, è appropriazione nata da un complesso di illegittimità. Nel profondo, sanno di essere stranieri qui. Sentono il vuoto dello sradicamento e cercano di colmarlo con simboli presi in prestito e tradizioni rubate.

È una tragedia di contraddizioni: distruggono l’ulivo ma desiderano la sua ombra; cacciano il contadino ma invidiano la sua semplicità; occupano la terra ma imitano la vita di coloro che hanno espropriato. Il loro desiderio di apparire autoctoni mette a nudo la loro alienazione.

La terra come identità

Per noi palestinesi, la terra non è uno stile di vita o una fuga nel fine settimana: è storia, memoria e identità. Ogni ulivo porta con sé le storie di generazioni. Ogni appezzamento porta un nome arabo o siriaco legato alla memoria delle persone che hanno vissuto qui per millenni. Ogni sorgente ha un nome, ogni terrazza una storia. Ogni pietra è stata sollevata da mani che amavano questo suolo e ne conoscevano i segreti.

Quando vedo i coloni nuotare nelle nostre sorgenti, costruire tavoli da picnic vicino ai nostri pozzi o organizzare matrimoni con musica folk palestinese, provo più che rabbia. È un dolore misto a incredulità, un senso di violazione della terra e del suo significato. Distruggono le radici e poi fingono di essere radicati. Uccidono i contadini e poi cantano le loro canzoni.

Possono copiare i gesti di appartenenza, ma non possono ereditarne l’anima. Possono cucinare la shakshuka, ma non potranno mai assaporarla come noi, condita con il lavoro, la pazienza e la nostalgia. Possono cantare le nostre canzoni, ma le loro voci non trasmetteranno mai l’amore e il dolore che le hanno plasmate. La nostra essenza è fatta dell’argilla di questo paese.

La terra ricorda

La loro imitazione rivela una profonda verità: lo stile di vita palestinese è l’espressione autentica di questa terra. I coloni vogliono apparire come nativi, mimetizzarsi nel paesaggio e cancellare i segni visibili dell’occupazione. Ma per quanto possano imitare, la loro presenza rimane un’intrusione violenta. Non possono cancellare la verità con l’olio d’oliva o coprire l’ingiustizia con una melodia popolare.

Non si può diventare indigeni rubando la terra o imitando la sua gente. L’appartenenza nasce dalla giustizia, non dall’imitazione.

Finché i coloni continueranno a uccidere i contadini, a rubare i raccolti di olive e a cacciare le famiglie dalle loro case, i loro tentativi di mettere radici rimarranno vani. Possono occupare le colline, ma non possono occupare la verità.

Quando mi trovo tra i miei ulivi al tramonto, sento il loro silenzio parlare. Ricordano le generazioni che li hanno curati, le mani che li hanno innaffiati, le canzoni cantate alla loro ombra e i passi che hanno tracciato i terrazzamenti. Hanno visto conquistatori andare e venire, eppure rimangono lì, saldi, radicati nella giustizia, nella memoria e nell’appartenenza.

I coloni possono imitare la nostra vita, ma non possono imitare il nostro amore per questa terra: l’amore non può essere finto e le radici non possono essere trapiantate con la forza. Possono prendere in prestito le nostre canzoni, il nostro cibo e le nostre usanze, ma non possono ereditare i secoli di cura, sudore e devozione che hanno plasmato questa terra e la sua gente.

Questa terra riconoscerà sempre i propri figli: quelli la cui pelle porta la sua polvere, la cui lingua è nata dalle sue colline, le cui canzoni si levano con il suo vento. La nostra pelle ha il colore del suo suolo, i nostri cuori battono al suo ritmo. Nessuna imitazione, violenza o occupazione potrà mai cambiare questa verità. Gli ulivi sopravviveranno a tutti loro, e così faremo anche noi.

di Fareed Taamallah

Traduzione di Nazarena Lanza

Versione originale in inglese su Middle East Monitor:

The settlers who kill Palestinian farmers and imitate their lives