In passato ci siamo occupati molto di CPR; dobbiamo tornare a farlo e con forza. È indubbio che il genocidio a Gaza abbia impegnato la gran parte delle nostre energie, ma nel frattempo le vergogne nostrane continuavano e facevano danni irreparabili; non dobbiamo dimenticarcene.

Riceviamo oggi, dall’inossidabile rete “Mai più lager- No ai CPR“, questo testo che ci sembra importantissimo divulgare. Ringraziamo la Rete di esistere e coloro che, sulla questione CPR, non hanno mai mollato.

Sta per iniziare il mio turno… un altro giorno al CPR, sono stanco e so che uscirò ancora più stanco…non tanto per i turni di 12 ore, per la mancanza di luce, per il cibo scadente… So che uscirò stanco mentalmente, affranto, senza speranze…

Conoscevo la realtà quando ho deciso di accettare il lavoro, è stata una mia scelta. Sarai un mediatore… Amo il mio lavoro, amo poter aiutare, ho pensato “posso cambiare qualcosa”, “ posso aiutare, posso far bene”.

Poi sono entrato e ho capito. Non posso fare nulla. Non posso cambiare niente.

Le cooperative cambiano, piccole modifiche, piccole finte migliorie di qualche giorno e poi torna tutto uguale… Il posto senza speranza, senza luce, senza futuro.

Quando si parla dei CPR ci si concentra sui casi di pestaggi, sulle violenze e sui soprusi, sull’illegalità, sui diritti non rispettati…ed è giusto che sia così.

Ma cosa vuol dire vivere in quel posto al netto degli episodi di cui si parla, al netto degli episodi giustamente urlati, al netto di ciò che fa notizia?

Gli utenti, chi sono gli utenti?

Sono numeri, solo numeri.. nessuno conosce i loro nomi, nemmeno i lavoratori, nemmeno gli operatori, men che meno l’ufficio e la polizia.

E allora quando li chiami con il loro nome cambia l’espressione nei loro volti. Cazzo, mi chiamo così, cazzo, lui mi ha visto…

Perché in quel posto nessuno vede nulla, ci si gira dall’altra parte e si finge di non sentire, di non ascoltare.

La realtà è quella di persone confinate in stanze, con una finestra che dà su un mondo che si può solo sognare.

Persone senza autonomia che devono chiedere di ricaricare il telefono, di accendere una sigaretta, di avere una bottiglietta di acqua rigorosamente senza tappo, di aver il loro pasto, un caffè, qualsiasi cosa.

Certo, norme anti-suicidio le chiamano.

Peccato che ogni giorno qualcuno lo tenti il suicidio, nei modi più disparati, mangiando le batterie, tagliandosi con oggetti di fortuna, provando a impiccarsi, facendo scioperi della fame.

E la soluzione qual è?

Tranquillanti, terapie, medicine.

State zitti, non parlate.

Urlate, chiedete? Vi battete per i vostri diritti?

Vi tolgono la voce.

L’unico modo per essere visti è tentare di togliersi la vita, è tagliarsi, è farsi del male.

E comunque nemmeno questo tentativo disperato funziona.

La realtà è questa: persone che stavano rientrando dal lavoro e si ritrovano in un CPR, persone che lasciano una famiglia e si ritrovano in un CPR, persone che rimpiangono il carcere, dove magari avevano anche i permessi per lavorare e si ritrovano improvvisamente senza nulla.

Vorrei l’avvocato. Vorrei parlare con la direttrice. Vorrei l’acqua. Vorrei caricare il telefono. Vorrei parlare. Vorrei la dieta che mi spetta. Vorrei la terapia nell’orario prestabilito.

Vorrei, vorrei, ma non ottengo nulla. Non ottengo nulla, urlo, mi arrabbio, me la prendo con i compagni, alzo la voce perché è l’unico modo per essere ascoltato.

Chi non urla, chi non chiede, chi non conosce i propri diritti non ottiene nulla. Chi urla, chi chiede, chi conosce i propri diritti non ottiene nulla.

AI lavoratori cosa si chiede?

I ragazzi non devono fare casino e quando provi a fare in modo che questo avvenga semplicemente dando loro una voce, facendo notare le cose che non vanno allora non va bene.

Quando chiedi per l’ennesima volta una ricarica per un ragazzo che aspetta da giorni…beh, non è fondamentale, non è urgente.

Quando chiedi quando è l’appuntamento per un tale ragazzo chiamandolo per nome la risposta è: “ Chi è? Mi serve il numero”.

E comunque “Non è urgente, domani, tra un’ora, tra due giorni….”

Cosa allora è urgente?

Nulla, solo numeri, nessuna urgenza, solo silenzio e urla che non vengono ascoltate.

Conoscevo la realtà, pensavo di cambiarla.

Nessuna equipe, nessuna formazione, nessun sostegno.

E allora me ne vado, me ne vado perché non reggo più, perché la notte devo dormire, perché il mio corpo e la mia mente non reggono più.

E sono fortunato perché io da operatore me ne posso andare, ma i ragazzi utenti non se ne possono andare.

E io sarei potuto essere lì dentro perché, sia chiaro, è una questione di fortuna.

Non sempre di delinquenza, non sempre di chissà quale crimine.

Spesso è una questione di burocrazia.

L’ultimo giorno ci salutiamo, è un saluto sincero, commuovente, è un saluto rassegnato.

Li saluto con un nodo in gola, perché so che in un Paese giusto dovrebbero essere loro a salutarmi dall’altra parte del cancello.