Nel corso degli anni si è riscontrata una progressiva eliminazione dei diritti di difesa delle vittime delle prassi di allontanamento forzato, respingimento e detenzione amministrativa. La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di gruppi di persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti, con modalità omogenee e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un popolo migrante. Un «popolo» dotato di una sua specifica connotazione, nei confronti del quale si commettono reati comuni e crimini internazionali, che possono assumere il carattere di crimini sistematici. Come è emerso da numerose testimonianze individuali e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di MEDU (Medici per i diritti umani) e di altre organizzazioni indipendenti, esaminati nel corso della sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli, che si è svolta nel dicembre del 2017, con particolare riguardo rispetto alle rotte migratorie nel Mediterraneo centrale .
Nella successiva sessione del TPP, nel 2018 a Barcellona,si rilevava come venissero generati spazi non-giuridici (o di non diritto), “perché le leggi vengono trasformate in mere affermazioni formali: sono perfettamente formulate, ma non hanno applicazione nella pratica. Le politiche di immigrazione distruggono il capitale legale diritti umani: degerarchizzano le norme e i valori supremi che governano le nostre società”. Anche in quella occasione si metteva dunque in evidenza, al di là della peculiare situazione nei singoli paesi, la diffusa negazione della giurisdizione, come strumento per dare effettività al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone.
A Berlino, nel 2020, il Tribunale permanente dei Popoli concludeva che “Le caratteristiche principali e impressionanti degli scenari che sono stati presentati al TPP nei suoi anni di attività, culminati nella Sessione di Berlino, devono essere visti alla luce della sostanziale negazione da parte delle istituzioni nazionali ed europee del permanente e schiacciante accumulo delle prove più tragiche di violazioni dei diritti umani individuali e collettivi dei popoli migranti e rifugiati lungo tutte le rotte marittime e terrestri che conducono ad un luogo europeo che dovrebbe essere un porto sicuro.
Nella categoria dei “crimini di sistema”, si comprendono politiche statali e scelte economiche che sacrificano diritti fondamentali della persona. Nella categoria più ampia dei crimini di sistema possono rientrare sia i crimini contro l’umanità, che possono essere sanzionati dalla Corte Penale internazionale e dalla Corte internazionale di giustizia, che reati comuni, sanzionabili già dalla giurisdizione nazionale, come il sequestro di persona, o l’omissione di soccorso, commessi da agenti istituzionali per effetto di scelte politiche.
Già nella sentenza del TPP di Palermo si osservava come l’allontanamento forzato delle navi delle ONG dal Mediterraneo, indotto anche dal Codice di condotta Minniti imposto dal governo italiano nel mese di luglio del 2017, avesse indebolito significativamente le azioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare e contribuisse ad aumentare quindi il numero delle vittime, consentendo di fatto ai libici di estendere la loro giurisdizione in acque internazionali, come se le zone di ricerca e salvataggio fossero spazi di sovranità, e non piuttosto aree di responsabilità per attività di ricerca e salvataggio.
A partire dal 2020 il ruolo di coordinamento della sedicente Guardia costiera è stato più frammentato, dopo il ridimensionamento della missione italiana in Libia, e l’ingresso della Turchia nelle aree costiere della Tripolitania, ma sempre più violento, mentre aumentava la pressione dell’Egitto sulla Libia orientale. Con la conseguenza che anche dalla Cirenaica, soprattutto dalla zona di Tobruk, sono ripresi transiti e partenze che negli anni precedenti sembravano bloccati quasi del tutto.
Malgrado accordi successivi, stipulati nel 2023 anche da rappresentanti dell’Unione Europea con il governo Saied, neppure la rotta tunisina veniva chiusa del tutto, e nonostante le violente azioni di repressione e gli interventi talvolta mortali della guardia costiera tunisina, riprendevano periodicamente le partenze verso la Sicilia, ed aumentava il numero delle vittime. In entrambi i casi la polverizzazione delle procedure di conclusione degli accordi a diversi livelli di responsabilità, e la frammentarietà degli interventi di intercettazione in mare, spacciati per operazioni di ricerca e soccorso (SAR), impedivano il ricorso alla giurisdizione e la sanzione dei responsabili.
In questo contributo, con particolare riferimento alle rotte migratorie attraverso il Mediterraneo centrale, si esamineranno i diversi casi della giurisdizione interna ed internazionale che in Italia ed a livello europeo, dal 2017 ad oggi, hanno affrontato le materie oggetto della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli adottata nella sessione di Palermo. Di fronte ad una travagliata involuzione della giustizia internazionale, si può parlare oggi di giurisdizione negata. Si tratta di un fenomeno che, soprattutto in base ad accordi intergovernativi, si rileva con diverse modalità in tutti i settori del Mediterraneo.
Nel 2017 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto la propria carenza di giurisdizione sugli accordi stipulati dai singoli paesi membri con la Turchia. Con tre ordinanze, del 28 febbraio 2017 (T-192/16, T-193/16 e T-257/16), il Tribunale dell’Unione ha dichiarato la propria incompetenza e ha quindi respinto i ricorsi introdotti, a norma dell’art. 263 TFUE, da due cittadini pakistani e da un cittadino afgano, richiedenti asilo in Grecia, con riguardo al c.d.accordo sui migranti del 18 marzo 2016 tra Unione europea e Turchia.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha delimitato la propria giurisdizione in modo da non intralciare le intese operative tra Italia e Libia per sequestrare i naufraghi in acque internazionali e deportarli nei lager dai quali sono fuggiti. Anche per la Corte di Strasburgo, evidentemente, le Convenzioni internazionali di diritto del mare ormai non valgono nulla. E non rileva neppure il ruolo criminale di comandanti libici come Bija o come Abdel Ghani al-Kikli, uccisi in faide tra milizie, dopo essere stati, per conto del governo di Tripoli, interlocutori privilegiati delle autorità italiane e protagonisti di respingimenti collettivi su delega e di sequestri di persone migranti intercettate in acque internazionali.
A giugno del 2025 sembra che un cerchio si sia definitivamente chiuso, soffocando i diritti delle persone migranti a partire dal diritto alla vita, fino al diritto di chiedere asilo e di non subire trattamenti disumani o degradanti. I giudici della Corte europea dei diritti dell’Uomo hanno negato la loro giurisdizione sul caso del respingimento collettivo operato da una motovedetta libica il 6 novembre 2017 (caso S.S./Italia), richiamandosi al caso Hirsi del 2009, ma di fatto capovolgendone la portata sostanziale, con la legittimazione delle sedicenti guardie costiere libiche, nei cd. respingimenti su delega, in acque internazionali.
La cartina di tornasole della effettiva portata degli accordi con i governi di paesi terzi che non rispettano i diritti umani è stata offerta da ultimo nel caso dell’arresto in Italia del comandante libico Almasri sulla base di un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale e tempestivamente trasmesso alle autorità italiane. Dopo settimane nelle quali diversi esponenti di governo avevano negato l’apertura di indagini da parte della Corte Penale internazionale, il 16 febbraio 2025 la Camera preliminare della CPI ha rivolto un invito alla Repubblica Italiana (“Italia”) a presentare osservazioni per spiegare la mancata consegna di Osama Elmasry/Almasri Njeem alla Corte dopo il suo arresto in territorio italiano.
Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera preliminare della Corte Penale Internazionale ha concluso la sua indagine e lo scorso 17 ottobre ha formulato gravi accuse nei confronti del governo italiano, che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante libico Njeem Almasri. In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato d’arresto.
La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto del signor Njeem da parte della polizia italiana.
Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”.
I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte.
Sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano, sulla richiesta del Tribunale dei ministri di mandare a processo i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano si sono innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Si può temere adesso che le tattiche dilatorie da parte del governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti ancora in corso a livello nazionale, possano comportare ulteriori rallentamenti anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale.
L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte, presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale.
Bisogna ripristinare un sistema di controlli giurisdizionali che permetta di sanzionare le violazioni dei diritti umani ed i reati comuni commessi da rappresentanti istituzionali, e tutte le complicità negli accordi con i paesi terzi, fino ai livelli più elevati della decisione politica. Una decisione politica che non può produrre morte e abusi disumani per tentare di raggiungere finalità di blocco delle migrazioni che oggi appaiono definitivamente fallite.
Un tribunale di opinione come il Tribunale permanente dei popoli è chiamato a mantenere costanti canali comunicativi con il sistema della informazione, sempre più condizionato dalle grandi proprietà e dai partiti di governo, e con la giurisdizione interna ed internazionale, in un duplice senso. Innanzitutto per trasmettere i risultati delle indagini e le decisioni di condanna che ne potrebbero venire. Ma anche per difendere, attraverso la raccolta di prove e la formulazione di atti di accusa, l’indipendenza di tutte le diverse giurisdizioni, che i governi attaccano perchè ostacolano il raggiungimento delle proprie finalità politiche, sulle quali costruiscono consenso elettorale sfruttando la disinformazione e l’indifferenza. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi anni le associazioni che hanno proposto dal 23 al 25 ottobre una nuova sessione a Palermo del Tribunale Permanente dei Popoli.










