Alla vigilia del rinnovo del Memorandum d’intesa con la Libia, la Camera preliminare della Corte Penale Internazionale conclude una lunga indagine e formula gravi accuse nei confronti del governo italiano, che non ha prestato la collaborazione dovuta nel caso del comandante libico Njeem Almasri.

In via preliminare,” la Camera osserva che l’Italia ha avanzato argomentazioni diverse e contraddittorie nelle sue diverse memorie presentate prima alla Cancelleria e poi dinanzi alla Camera. Nelle sue varie memorie, l’Italia adduce presunte giustificazioni per la mancata consegna del signor Njeem alla Corte, tra cui presunte preoccupazioni relative al mandato d’arresto.

La Camera osserva, tuttavia, che l’Italia non spiega, in nessuna delle sue memorie, perché non abbia comunicato con la Corte né le sue preoccupazioni né eventuali ostacoli giuridici interni, prima di restituire il signor Njeem. A tale riguardo, la Camera osserva che il Ministero della Giustizia italiano ha cessato le sue comunicazioni con la Corte poco dopo averle notificato l’arresto del signor Njeem da parte della polizia italiana.

Nonostante sia stato ripetutamente interpellato in merito, il Ministero non ha informato la Corte quando si sarebbe tenuta l’udienza dinanzi alla Corte d’Appello di Roma. Inoltre, non ha tempestivamente informato la Corte dell’esito dell’udienza né della sua intenzione di rimpatriare il signor Njeem in Libia a seguito della decisione della Corte d’Appello di Roma”. Il governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ritiene tali spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”.

La Camera preliminare della CPI afferma che “l’articolo 88 dello Statuto obbliga gli Stati Parte a “garantire che siano disponibili procedure previste dal loro diritto nazionale per tutte le forme di cooperazione specificate nella [Parte IX dello Statuto]”. Pertanto, l’Italia è tenuta a garantire che tale legislazione sia in vigore e che eventuali ostacoli previsti dal diritto interno siano di sua competenza e non ne giustifichino l’inosservanza”.

In realtà, le ultime giustificazioni espresse dal governo nel dibattito in Aula sul caso Almasri, negli scorsi giorni, si discostano dalle prime dichiarazioni di Nordio e di Piantedosi, e non fanno più riferimento a eventuali vizi degli atti inviati dalla CPI, ma prospettano rischi per la sicurezza degli italiani in Libia e per le politiche di collaborazione contro i migranti instaurate con il governo di Tripoli. Motivazioni che rimangono del tutto generiche e prive di riscontri documentali.

Dalle dichiarazioni di Nordio sui vizi formali del mandato di arresto emesso dalla CPI si è passati nel corso del tempo a motivazioni riconducibili alla sicurezza dei nostri concittadini e agli interessi economici italiani in Libia. Sembra però che ormai prevalga una diffusa assuefazione alle contraddizioni ed alle menzogne che caratterizzano l’azione del governo italiano, non solo nel campo delle politiche migratorie.

Il governo, entro il 31 ottobre, dovrà fornire informazioni su eventuali procedimenti interni che riguardano il caso e sul loro impatto nei rapporti di collaborazione con la CPI. Tutto questo avviene pochi giorni dopo la mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento sulla richiesta del Tribunale dei ministri che si è occupato delle responsabilità dei politici e dei funzionari che, malgrado un mandato di arresto della CPI, hanno liberato il comandante militare libico, capo della milizia Rada, ma anche sospetto criminale, perseguito dalla CPI, garantendogli un ritorno trionfale a Tripoli su un volo di Stato. Perchè di un torturatore dobbiamo parlare, nel caso di Almasri, sulla base delle denunce delle vittime, rinnovate ancora in questi giorni.

Da Gaza a Lampedusa e Pozzallo, dove arrivano corpi martoriati dagli attacchi operati dai libici al di fuori delle loro acque territoriali, persino nella zona SAR maltese, a sud di Lampedusa, sembra davvero che il diritto internazionale, e la giurisdizione delle Corti che ne dovrebbero garantire l’applicazione, siano ormai sconfitti dalla violenza degli Stati che sulla base di accordi infami, in violazione dell’art.53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, impongono le loro regole di esclusione e sfruttamento e sulla pelle dei civili e contro il principio di legalità, base dello Stato di diritto, intercettando e criminalizzando ogni tentativo di portare solidarietà alle persone migranti, in mare, come a terra. E’ nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, è in conflitto con una norma imperativa del diritto internazionale generale.

Ai fini della Convenzione di Vienna, una norma imperativa del diritto internazionale generale è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo complesso come norma alla quale non è consentita alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da un’altra norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. Gli accordi con i libici violano norme cogenti di diritto internazionale, comportando una corresponsabilità degli Stati parte per tortura sistematica, trattamenti inumani o degradanti, morte in mare per abbandono o uccisione diretta, e violazione del divieto di respingimento (art.33 Convenzione di Ginevra sui rifugiati). Su questi crimini internazionali sta continuando ad indagare la Procura della Corte Penale internazionale, e su questi stessi crimini, per i profili inerenti la violazione di norme di diritto penale, stanno indagando i giudici penali, dopo esposti presentati dalle vittime dei torturatori libici.

La Camera preliminare della CPI esamina le richieste provenienti dall’ufficio del procuratore per accertare se esistono prove sufficienti di crimini di competenza della Corte e se sono necessarie indagini nell’interesse della giustizia e delle vittime. A conclusione della sua indagine preliminare la Camera trasmette gli atti al procuratore che può chiedere il deferimento dello Stato parte o di suoi rappresentanti istituzionali all’assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu. 

I tempi dei procedimenti davanti alla Corte Penale internazionale sono molti lunghi, e non è neppure scontato che la Corte arrivi ad una sentenza di condanna, in un momento in cui gli Stati più esposti al suo giudizio, come gli Stati Uniti, la Russia, Israele, seguiti dall’Italia e da altri paesi schierati all’ombra di Trump, ne attaccano sul piano personale i giudici e ne contestano la giurisdizione, nel tentativo di una definitiva delegittimazione della Corte Penale Internazionale.

Se pensiamo che sulla mancata autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano si sono innescati due opposti ricorsi per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale, si può temere che le tattiche dilatorie da parte del governo per eludere responsabilità evidenti, magari adducendo procedimenti ancora in corso a livello nazionale, potrebbero comportare ulteriori rallentamenti anche nelle attività di indagine della giustizia penale internazionale.

L’articolata denuncia della Camera preliminare della Corte Penale internazionale, al di là dell’esito della procedura presso la stessa Corte, presenta comunque elementi di grande interesse per valutare il comportamento del governo italiano e dei suoi componenti, elementi che potrebbero rilevare anche davanti ai giudici nazionali, e che comunque costituiscono già adesso, anche oltre il caso Almasri, un giudizio assai ben fondato sull’inadempimento dell’Italia rispetto agli obblighi di collaborazione derivanti dallo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale internazionale.

Occorre diffondere questo atto di accusa proveniente dal più importante organismo della giustizia penale internazionale, anche per rispetto delle vittime che si continuano a sommare nelle acque del Mediterraneo centrale e nei campi di detenzione in Libia, per effetto degli spazi di interdizione in alto mare e dei poteri di blocco e sequestro affidati ai libici per contrastare quella che si definisce soltanto come “immigrazione illegale”. Sulla quale il governo Meloni si prepara a “chiudere” il caso Almasri e ad imbastire le prossime campagne elettorali, per distogliere l’attenzione degli italiani dai suoi fallimenti di sistema, tanto nella politica dei rimpatri dai CPR, ancora bloccati su numeri quasi simbolici, che nel tramonto del modello Albania, bocciato anche dalla Corte di Cassazione.

Un enorme spreco di danaro pubblico, sul quale dovrebbe indagare la Corte dei conti, sempre che i nuovi giudici presso questo organismo, di fresca nomina governativa, non siano stati messi lì proprio per nascondere le responsabilità contabili di chi ha voluto dare esecuzione ad un accordo che non è stato sostenuto neppure dall’Unione europea e dalla Corte di giustizia di Lussemburgo, che sulla qualificazione dei paesi di origine sicuri, e su correlati diritti di difesa, ne hanno messo in dubbio la compatibilità con i trattati e le basi giuridiche.

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