Il CPR (Centro per il Rimpatrio) di Torino è uno dei primi centri di questo tipo che è stato aperto in Italia, opera dal 1999. È collocato all’interno della città e riutilizza una struttura esistente, dopo le necessarie opere di adattamento. A seguito di un importante danneggiamento di tale struttura, è rimasto chiuso dal marzo 2023 al marzo 2025.
In questo periodo, con i fondi del Ministero degli Interni, non solo sono stati eseguiti ampi e costosi lavori di ristrutturazione, ancorché parziali, ma è stata anche svolta la gara di appalto per l’assegnazione della gestione a un ente esterno.
Nel maggio 2021, un paio di anni prima della chiusura, si era verificato un episodio terribile e crudele. Un ragazzo africano, Mussa Balde di 23 anni, era stato vittima di un violento pestaggio a Ventimiglia ed era stato fermato dalla Polizia perché il suo permesso di soggiorno era scaduto. Senza una spiegazione e senza una adeguata valutazione delle sue condizioni, era stato trasferito e rinchiuso nel CPR di Torino.
Al suo ingresso nel centro era in condizioni di grave disagio, cosicché venne posto nel cosiddetto “ospedaletto” interno, cioè una piccola cella isolata. Di fatto nessuno si è occupato di lui, né delle conseguenze delle percosse di cui era stato vittima. Essendo stato messo in isolamento nessuno, nemmeno gli altri trattenuti, ha potuto dargli conforto o aiuto.
Come scrive Luca Rondi su Altraeconomia, “da vittima ben presto è diventato l’irregolare da isolare e trattenere”. Nella notte fra il 22 e il 23 maggio Mussa si tolse la vita, morendo da solo in quella cella. La vicenda giudiziaria a carico dei responsabili del centro per il loro comportamento e le gravi omissioni è ancora in corso.
Come è noto, il CPR sarebbe destinato al trattenimento delle persone straniere in attesa di espletare la loro espulsione. Recentemente il periodo massimo di permanenza in questo tipo di strutture è stato prolungato fino a 18 mesi, un tempo sorprendentemente lungo se si trattasse solo di svolgere una pratica burocratica.
È anche noto che per eseguire il rimpatrio occorre essere certi dell’identificazione della persona e che ci sia un accordo fra stati, cioè dell’Italia con il paese di origine che dovrebbe riaccogliere il suo cittadino. Di fatto si tratta di pratiche amministrative complesse e, quando l’accordo fra stati non c’è (e questa è molto spesso la situazione), si sa a priori che non vi sarà la possibilità di arrivare al rimpatrio.
Infine, è da notare che al termine dei 18 mesi il trattenuto è rilasciato e abbandonato a se stesso, senza riferimenti perché spesso si ritrova in una città lontana da quella dove aveva vissuto e senza documenti validi.
La relazione della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Torino, che ha visitato il centro più volte, riporta che in meno di 4 mesi sono passate da questo centro 196 persone. Di queste ne sono state rimpatriate solo 18, di cui 2 volontari. I dati mostrati dalla Garante testimoniano un continuo cambio delle presenze.
Cinquantotto dei trattenuti provenivano da istituti penitenziari, dove a fronte di una condanna della magistratura avevano scontato la pena loro inflitta, quindi avevano saldato il loro debito con la giustizia.
Centotrentotto, la grande maggioranza (oltre il 70%), erano invece persone recluse a seguito di un intervento di fermo amministrativo, “provenienti dalla libertà” secondo l’efficace espressione usata dalla Garante. Si trattava di persone fermate dalla Polizia e trovate in stato di irregolarità, ad esempio con il permesso di soggiorno scaduto.
Erano trattenute a seguito di un fermo cosiddetto amministrativo, da distinguere da quello giudiziario, perché non avevano compiuto reati ma si trovavano in stato irregolare rispetto a una prescrizione amministrativa.
Occorre riflettere su questi dati: a nostro parere danno chiaramente un quadro della situazione che contrasta con quello, alimentato ad arte, che vorrebbe far credere che si tratti di delinquenti e clandestini meritevoli di espulsione perché colpevoli di gravi reati.
Tutti i trattenuti nel CPR sono trattati alla stessa maniera, che ha certo poco di umano. Come riferiscono gli avvocati, alcuni di loro, che hanno sperimentato anche la reclusione in carcere, rimpiangono il trattamento ricevuto in prigione rispetto a quello subito attualmente nel CPR.
Gli spazi sono ristretti, la possibilità di svolgere attività fisica ridotta, la possibilità di ricevere visite negata. Solo alcune figure istituzionali e gli avvocati hanno la possibilità di accedere. I colloqui con gli avvocati avvengono senza il dovuto riserbo.
Talvolta, purtroppo sembra piuttosto frequentemente, si verificano quelli che sono riportati in un apposito registro come “eventi critici”, ad esempio atti di autolesionismo, diverbi, proteste e lesioni.
La cura degli aspetti igienici è ridotta e quella degli aspetti sanitari carente. All’ingresso in un CPR ciascun trattenuto dovrebbe avere un certificato di idoneità redatto sia da un medico (tipicamente prodotto) sia da uno psicologo (che invece in molti casi pare mancare). La gestione e la somministrazione dei farmaci non è spesso motivata da uno scopo terapeutico e, come testimoniano i risultati di ricerche accurate svolte da un’équipe di persone competenti, vi è un uso eccessivo e ingiustificato di psicofarmaci.
La società civile si è mobilitata ed è nata la “Rete torinese contro tutti i CPR”, intitolata a Mussa Balde. Tale rete, a cui ha aderito anche Famiglie Accoglienti, ha sostanzialmente lo scopo di monitorare la situazione all’interno del CPR torinese con l’obiettivo di ottenere trasparenza e correttezza di comportamento da parte dei gestori e del presidio, svolgere pressione sul Governo perché, riconosciuto che questo tipo di strutture e di gestione viola gravemente la dignità delle persone, vengano chiuse, stimolare l’ente gestore e la vigilanza affinché un minimo livello di umanità venga comunque garantito nei rapporti con i trattenuti, diffondere un’informazione chiara e completa sull’effettiva realtà di questi centri, organizzare attività di formazione e approfondimento sul tema avvalendosi degli studi svolti da associazioni e ricercatori universitari, e promuovere periodici incontri pubblici di informazione e sensibilizzazione.










