Nell’anniversario della strage del 1991 in via D’Amelio a Palermo, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino insieme con la sua scorta, proponiamo l’intervista al giurista e criminologo Vittorio Musacchio pubblicata sul sito interris.it

“Il 19 luglio per me rappresenta un momento di seria riflessione su quanto si stia facendo per il contrasto della criminalità organizzata. Mi concentro in modo particolare sull’importanza della rete e della coesione sociale nel fronteggiare i nuovi fenomeni criminali di stampo mafioso in ascesa”, dice a Interris.it il giurista e criminologo Vincenzo Musacchio nel trentatreesimo anniversario della strage di via D’Amelio.

Il 19 luglio 1992, nemmeno due mesi dopo Capaci, un attentato mafioso uccise il giudice Paolo Borsellino e gli uomini – e la donna – della sua scorta. “Ricordare Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, significa non solo tenere viva la loro memoria e promuovere i loro ideali di giustizia, ma agire con i fatti e non solo partecipando a cerimonie che restano spesso sterili e teatrali” dichiara il ricercatore indipendente ed esperto di mafie transnazionali associato allo statunitense Rutgers Institute on Anti-corruption Studies.

Lei è stato allievo di Antonino Caponnetto, che alla morte di Borsellino pronunciò le parole “è finito tutto”: le ha raccontato qualcosa di lui?

“Ho avuto la fortuna di poterlo conoscere e frequentare, era una persona speciale, di quelle che ti cambiano la vita. Mi raccontò che Paolo Borsellino era particolarmente turbato e preoccupato per la sua famiglia e per gli uomini della sua scorta. Tante volte mi disse di quando chiese agli organi competenti di bonificare i luoghi abitualmente frequentati da lui, in particolare la rimozione delle auto parcheggiate in via D’Amelio, sotto casa della madre, dove andava almeno una volta la settimana. Nessuno fece nulla. Questo mi disse confermava, colpe, omissioni, negligenze e complicità di pezzi deviati di Stato che hanno – con dolo o colpa grave – agevolato la mafia. Se lo Stato si fosse impegnato con tutte le sue forze, Paolo Borsellino si sarebbe potuto salvare”.

Cosa, dell’etica e del metodo lavorativo di Borsellino, può essere un modello, un esempio, un’ispirazione, per la cultura della legalità?

“Personalità come quella di Paolo Borsellino dovrebbero costituire un faro per le nuove generazioni. Solo così il ricordo avrebbe un senso e una dimensione edificante. Credo che il messaggio più logico sia quello di non rassegnarsi mai nel perseguimento della ricerca della verità e della giustizia. Sono i due valori che tutti coloro che hanno combattuto le mafie non hanno mai smesso di perseguire. Nel rispetto del suo ricordo dobbiamo continuare la sua opera ciascuno nel proprio ruolo. Per non cadere nella retorica però devo anche dire che più passerà il tempo è più diventerà difficile accertare le responsabilità in tutte quelle vicende, come la strage di via d’Amelio, di per sé assai difficili e complesse da ricostruire, in special modo dopo depistaggi mai visti prima in uno Stato che si professa di diritto”.

Come parlare di figure come le vittime di mafia ai giovani?

“Facendo comprendere ai più giovani che il loro contributo diretto nella lotta contro le mafie deve essere consapevole e formativo. I nostri giovani sconfiggeranno le mafie se faranno il loro dovere come hanno fatto le tantissime vittime di mafia, se svolgeranno una attività lavorativa, se si interesseranno della pubblica amministrazione, se parteciperanno attivamente e onestamente alla vita politica del proprio territorio. Occorre far capire loro che dovranno fare la loro parte quando saranno componenti attive della società civile. Se non si faranno corrompere e svolgeranno bene il proprio ruolo la lotta alle mafie sarà molto più agevole.”

“La mafia teme la scuola più che la giustizia”, ha detto Caponnetto. Lei oltre che giurista e criminologo è anche direttore scientifico della Scuola di Legalità dedicata a don Peppe Diana e fa incontri nelle scuole, come fa la sua parte nell’educare gli adulti di domani alla legalità? Come gli parla? Cosa gli dice?

“Cerco di far comprendere loro il senso della legalità e soprattutto far cessare la morsa del silenzio e dell’indifferenza che è diventata veramente intollerabile quando si parla di mafie. Dobbiamo educare al rispetto delle regole: oggi regna l’idea che le regole non siano importanti, che siano un fatto trascurabile. Non è così: le regole quando sono giuste hanno il potere di cambiare una società, ma con la stessa facilità la loro violazione o, peggio, il messaggio che sono inutili e violabili possono distruggerla inesorabilmente. Diffondiamo questo messaggio e come diceva Paolo Borsellino ‘Parliamo della mafia. Parliamone alla radio, in televisione, sui giornali. Però parliamone’”.

Lorenzo Cipolla

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