Quella che doveva essere una manifestazione globale senza precedenti si è trasformata in uno scontro con la realtà geopolitica. La Marcia Globale per Gaza era pensata come una dimostrazione pacifica e coordinata per chiedere la fine dell’assedio in corso contro Gaza.
La Palestina vive da oltre 80 anni sotto un’occupazione illegale da parte di Israele e, a giugno 2025, più di 60.000 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio dell’offensiva israeliana nell’ottobre 2023.
Questo ha acceso appelli crescenti in tutto il mondo per porre fine a ciò che le organizzazioni per i diritti umani continuano a definire un blocco illegale.
Il sogno iniziato con 54 delegazioni da tutti i continenti — via terra, mare e aria —si è sfilacciato rapidamente, rivelando crepe interne, complicità internazionali e i limiti della modalità attivista occidentale in contesti non occidentali.
La marcia, collegata per mare alla Freedom Flotilla Coalition e via terra al Convoglio Soumoud (un’iniziativa nordafricana che ha percorso oltre 2000 km a tratta), mirava a unire il Nord e il Sud globale. Ma mentre la visione era storica, l’esecuzione ha posto in luce tensioni radicate da decenni.
Facevo parte della delegazione italiana, giunta a Il Cairo l’11 giugno. Avevo speranza e realismo: speranza per il potenziale storico; realismo per la situazione politica e l’allineamento strategico dell’Egitto con Israele e l’Occidente.
Gli organizzatori avevano assicurato che la marcia si sarebbe svolta solo con l’approvazione del governo egiziano—condizione sancita negli accordi di partecipazione. Ma quell’ok non è mai arrivato. Già al nostro arrivo, le autorità, sotto minaccia di azione militare delle forze israeliane, avevano iniziato a soffocare l’iniziativa.
Alle prime ore del 12 giugno, all’aeroporto, nonostante il visto approvato sono stata fermata: passaporto e telefono confiscati, condotta in una sala con circa 70 persone di oltre dieci nazionalità. Nessuna spiegazione, solo un silenzio burocratico inquietante.
Ne seguì uno stallo di 12 ore, teso ma non violento. I tentativi di contattare le ambasciate sono stati ignorati: solo l’Algeria ha risposto. Le delegazioni europee — inclusa la nostra — sono state abbandonate: un chiaro segnale che gli interessi strategici con Israele contano più dei diritti dei cittadini. Non si è trattato solo di omissione diplomatica, ma di una complicità silenziosa.
Eppure, nonostante isolamento e incertezza, il morale era alto. Abbiamo cantato per la Palestina e condiviso visioni di solidarietà e pace globale: un momento di rara solidarietà, carica di elettricità.
Ci siamo rifiutati di lasciare il paese finché non fosse stata garantita la telefonata alle ambasciate—una protesta rivolta non contro l’Egitto, ma contro i nostri governi europei e la loro complicità con il genocidio palestinese. Un ufficiale ha ammesso: «Sì, lo so, ma non posso».
Alla fine sono stata espulsa su un volo per Istanbul, senza sapere la destinazione fino all’imbarco. Altri partecipanti hanno subito lo stesso trattamento.
Ma questo evento rimane solo un sintomo di una frattura più ampia. Quello che poteva essere un momento di unità globale si è trasformato in un’esposizione delle iniquità tra delegazioni occidentali e arabe. La manifesta inconsapevolezza di molti attivisti occidentali del contesto egiziano — che ha ignorato gli avvertimenti sulle restrizioni — ha aggravato i rischi.
La mancanza di consapevolezza politica e culturale, sintomo di attivismo performativo, ha finito per favorire la repressione già pesante in Egitto, e ha innescato potenzialmente reazioni a catena oltre il paese
Il Convoglio Soumoud, respinto al confine egiziano, è rimasto bloccato in Libia in condizioni molto precarie: circa 7.000 persone attendono ancora, ad oggi 16 giugno, che terminino le trattative con le forze libiche per il rilascio. È difficile ignorare il legame tra la stretta egiziana e questa escalation libica.
Il peso della repressione è caduto su chi era meno protetto dalle istituzioni internazionali — una dinamica che accompagna da sempre i movimenti di solidarietà con la Palestina.
Il sogno di un fronte unito per Gaza ha urtato contro il muro duro della geopolitica. Ma in questo scenario emergono anche lezioni illuminanti.
Il Convoglio Soumoud è la componente più riuscita della campagna. Pur non essendo arrivati a Gaza, hanno ispirato migliaia di persone in Nord Africa.
Attraverso Algeria, Tunisia e Libia hanno radunato comunità, amplificando un messaggio di giustizia con chiarezza strategica. Al ritorno stanno ricevendo accoglienza da eroi nazionali.
La loro esperienza ci ricorda che la solidarietà autentica non si esprime solo con la presenza: richiede consapevolezza, strategia e rispetto. Come attivisti, giornalisti, e cittadini dobbiamo interrogarci: si può davvero agire in movimenti non propri senza prendere coscienza delle voci di chi subisce? Siamo consapevoli di come il nostro privilegio occidentale possa distorcere le lotte che dovremmo sostenere?
L’occupazione della Palestina non sussiste solo con le armi, ma con una complicità globale — silenziosa o esplicita. Se movimenti come questo vogliono sopravvivere e avere impatto, dovranno essere guidati da strategia, umiltà e una netta consapevolezza delle asimmetrie di rischio, potere e conseguenze.
La Global March to Gaza forse non ha spezzato l’assedio, ma ha infranto l’illusione che bastino le buone intenzioni. Chi vuole sfidare davvero i poteri oppressivi deve prima sfidare se stesso.
Cecilia Canazza è una scrittrice e attivista italiana attualmente a Tunisi. Dopo una carriera nella comunicazione internazionale legata a grandi eventi sportivi, ha deciso di concentrarsi su cause umanitarie e politiche decoloniali. Il suo lavoro si focalizza oggi sulle interconnessioni tra diritti umani, giustizia ambientale e lotte di liberazione — in particolare in Palestina. Lavora in italiano e inglese, e adotta un approccio interdisciplinare nella scrittura e nell’attivismo.
Traduzione dall’inglese a cura di Vittoria Antonioli










