Ieri sera sono andato in piazza Cicetti, una grande sindacalista comunista, a fumarmi in pace il mio toscanello, ma dopo dieci minuti la mia tranquillità è stata interrotta dalle urla volgari, sessiste e razziste che un uomo rivolgeva a due ragazzine Romrì.

Non riporto le sue parole ma mi metto di mezzo, riconosco l’uomo, un povero cristo che, pur avendo una casa, passa le sue giornate quasi sempre ubriaco e facendo ascoltare a tutta via del Trullo, con una mega cassa, le sue canzoni preferite.

Una volta non ho resistito e gli ho detto: “Ti fa male bere così tanto” e lui, invece di mandarmi a quel paese, si è messo a piangere come un bambino. “Lo so, ma io sono solo”.

Insomma questo povero cristo ce l’aveva con queste due giovanissime Romrì, peraltro con la bellezza caratteristica di questo “popolo del vento”.

“Perché dici queste cose così brutte a due ragazzine? Non ti vergogni?”.

“Sono zingare, devono andare via da qui”.

“Mi spieghi che cosa ti hanno fatto per urlare in questo modo?”

“Mi hanno rubato la cassa dell’amplificazione”

“Scusa, ma ce l’hai ancora lì accanto a te”

“Non dico questa, ma un’altra più grande a Ponte Marconi, me l’hanno rubata gli zingari dieci anni fa”.

“Scusami, ma se dormivi come fai a dire che sono stati gli zingari e poi ammesso e non concesso, loro dieci anni fa avevano si e no quattro o cinque anni”

“Devono andarsene, ora chiamo la polizia. Al ladro! Aiuto!!!”.

Le due ragazzine peraltro sono due tipette che non se ne stanno certo zitte a prendersi insulti: “Vattene a casa scemo ubriacone, la piazza non è tua. Io sono minorenne e se arriva la polizia si porta via te”.

Fortunatamente arriva un giovane uomo, che sta portando tre dei suoi figli che sfrecciano in monopattino, a fare una passeggiata; dai tratti del volto immagino che sia anche lui un Rom Khorakhanè di origine bosniaca, infatti si rivolge con molta pacatezza alle ragazzine ormai inviperite invitandole a farsi una passeggiata.

Anche il povero cristo si allontana minacciando di chiamare la polizia.

Allora inizio una lunghissima chiacchierata con l’uomo: “Lo conosco, non è cattivo, è buono, ma quando beve troppo non ragiona e poi alcuni ragazzini del quartiere lo prendono di mira e lui si incattivisce” mi spiega. Il mio nuovo amico si definisce subito zingaro, un termine che anch’io  utilizzo spesso, perché in sé e per sé è la parola italiana con cui sono chiamati Rom, Sinti, Camminanti e Khalè.

Se uno dice: “Un grande violinista zingaro” non è certo un termine offensivo.

Di cosa parliamo? Della guerra, dell’attacco degli Stati Uniti all’ Iran, del genocidio a Gaza, delle basi statunitensi in Italia. Condividiamo questa grande preoccupazione. Mi chiede chi sarebbe richiamato se l’Italia entrasse in guerra. Lui no certamente, perché ha nove figli e il più grande ha 14 anni.

Mi racconta la sua vita, che riassumo in poche frasi.

I suoi genitori, che vivevano in un villaggio in Bosnia, sono scappati da là ai tempi della guerra che ha distrutto lo stato plurinazionale di Jugoslavia, dove i Rom erano riconosciuti come popolo della Federazione Socialista.

Alcuni anziani che avevo conosciuto mi parlavano con ammirazione del maresciallo Tito, che li aveva salvati dallo sterminio attuato dagli Ustascia croati alleati di fascisti e nazisti.

Molti Rom scapparono dalla guerra e dal riemergere del razzismo rifugiandosi in Italia, dove avevano già parenti. Lui a diciotto anni ha preso la cittadinanza italiana e i suoi figli, a cui ovviamente l’ha trasmessa, frequentano regolarmente la scuola dell’infanzia, la scuola elementare e la scuola media.

Prima abitava in un campo e ne parla con un velo di nostalgia, perché “stavo insieme ai miei parenti e ogni scusa era buona per festeggiare insieme. Anche un centinaio di persone.”

“Pecora allo spiedo, ma niente maiale” gli dico.

“Come fai a saperlo?” mi chiede.

“Sono un maestro e più volte sono stato invitato, una volta a Capodanno e alla fine ho dormito in una roulotte”.

“Niente maiale, certamente, siamo musulmani”.

“Ma tanta birra però” gli dico e lui si mette a ridere.

Arrivano i suoi figli più grandicelli in monopattino e mi salutano con cortese gentilezza, del resto lui è così. Gli chiedo come è stato avere una casa ma trovarsi a vivere tra i gagè, come loro definiscono tutti gli altri.

“I gagè non sono tutti uguali, la maggior parte di voi se uno si comporta bene, si comportano con rispetto. Però ci sono anche quelli veramente razzisti, che insultavano non solo me, ma i miei bambini e mia moglie.

All’inizio ci ho litigato. Poi mi sono detto: dove vado a finire su questa strada? Va a finire che ammazzo qualcuno.

Allora ho cambiato radicalmente atteggiamento. Ho iniziato a salutare tutti con gentilezza, anche se mi rispondevano male. Poi mi ignoravano e adesso con alcuni ci parlo come buoni vicini di casa.”

“Non ti ho ancora detto  il mio nome”, gli dico. “Sono Mauro.”

Ci stringiamo la mano. “Io mi chiamo Fuad, guarda che ti ho detto il mio vero nome”.

“Allora mi stai facendo un grande onore. Vuol dire che mi consideri un vero amico” rispondo.

Rientrando a casa trovo due giovani poliziotti, con un chiaro accento del Sud. Li ha chiamati il povero cristo che vuole denunciare le due ragazzine che gli hanno rubato la cassa dell’amplificazione quando ancora non erano nate.

I due poliziotti con infinita pazienza gli dicono di non offendere le ragazzine, di non urlare in mezzo alla strada e di rientrare a casa sua. Si preoccupano che effettivamente ritorni a casa. Scambiamo due frasi, vogliono sapere se effettivamente ha una casa dove andare a dormire.

“Insomma, vi tocca fare da assistenti sociali” gli dico. Sorridono e hanno uno splendido giovane sorriso, altro che ACAB.