1. Con una importante ordinanza a Sezioni Unite del 18 febbraio scorso, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino eritreo contro una sentenza della Corte di Appello di Roma (n. 1803 del 13 marzo 2024) che negava il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in occasione dell’illegittima restrizione della libertà personale avvenuta, a bordo della nave della Guardia Costiera italiana Diciotti, dal 16 al 25 agosto 2018. Il ricorrente aveva agito con altri connazionali chiedendo in un giudizio civile la condanna del Governo italiano in persona del Presidente del Consiglio pro-tempore e del Ministero dell’interno in persona del Ministro allora in carica Matteo Salvini.
La Corte di Cassazione ha quindi rinviato la causa alla Corte di Appello di Roma “in diversa composizione”, che dovrà decidere alla luce dei principi affermati dalla Corte sulla base delle Convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare ed obblighi di sbarco a carico delle autorità statali. Di particolare rilievo, al di là della decisione sul caso concreto, in ordine alla responsabilità civile delle autorità statali, la portata dirompente dell’affermazione della giurisdizione rispetto ad un atto, quale l’assegnazione del porto di sbarco sicuro (POS) che secondo il governo costituiva invece un esercizio di mera discrezionalità riconducibile alla nozione di “atto politico”, come tale sottratto a qualsiasi controllo da parte dei giudici.
Le Sezioni Unite della Cassazione escludono che “il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la Costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione”.
Secondo la Corte di Cassazione, che richiama una consolidata giurisprudenza, “L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”. Per la Corte, tra le altre motivazioni, “le Convenzioni internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, n base agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell’autorità politica, poiché assumono, in base al principio “pacta sunt servanda”, un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna”.
2. La Cassazione afferma poi un importante principio di diritto che potrebbe incidere sulla futura applicazione degli accordi con le Guardie costiere della Libia e della Tunisia: “L’obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità; come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare“.
Si dovrebbero pertanto ritenere contrari a questo principio quegli accordi bilaterali in base ai quali si limitano le attività di ricerca e soccorso in acque internazionali, subordinandole alla preventiva autorizzazione da parte delle autorità marittime di Stati terzi, che peraltro non garantiscono né un effettivo riconoscimento dei diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto di asilo, né un tempestivo intervento di salvataggio.
La Corte aggiunge anche che non può ritenersi che lo Stato responsabile nella assegnazione del POS sia lo Stato di bandiera in quanto titolare della giurisdizione sulla nave soccorritrice, ed infatti, a parte il fatto che tale Stato potrebbe trovarsi ad una distanza di migliaia di chilometri dalla zona di intervento, in occasione di un evento di pericolo, risulta prevalente l’applicazione delle disposizioni della Convenzione SAR, fondate sul principio della massima rapidità ed efficacia nelle operazioni di salvataggio, piuttosto che sul dato formale della sussistenza della giurisdizione sulla nave soccorritrice.
In questo caso la Corte di Cassazione richiama una precedente sentenza del Consiglio di Stato (25/02/2025, n. 1615, in motivazione, par. 33.2), che aveva affermato l’obbligatorietà dell’assegnazione del porto di sbarco, pur ritenendo che le autorità statali rimangono libere di determinare la destinazione finale dell’imbarcazione soccorritrice, in base a complesse esigenze di rilevanza pubblica, come ad esempio la disponibilità di posti nei centri di accoglienza o motivi di ordine pubblico. Determinazioni che non andrebbero sottratte ad un rigoroso controllo giurisdizionale in ordine ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità.
Per quest’ultima sentenza della Corte di Cassazione, “lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» (Convenzione SAR, capitolo 3.1.9), fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; è solo con la concreta indicazione del POS, e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato, che, infatti, l’attività di Search and Rescue può considerarsi conclusa“. Alla stregua di questo passaggio della sentenza sarebbe censurabile anche la prassi dei cd. porti lontani di sbarco assegnati alle navi delle ONG, e soltanto a loro, con finalità vessatorie.
Tuttavia, la Corte di Cassazione non si allontana neppure tanto dalla precedente sentenza del Consiglio di Stato dello scorso 25 febbraio, in quanto “in capo agli Stati residua, infatti, un margine di “discrezionalità tecnica” solo ai fini dell’individuazione del punto di sbarco più opportuno, tenuto conto del numero dei migranti da assistere, del sesso, delle loro condizioni psicofisiche nonché in considerazione della necessità di garantire una struttura di accoglienza e cure mediche adeguate; ferma restando la doverosità dell’indicazione del luogo sicuro in cui concludere l’evento SAR dichiarato, ritardi nella designazione dello stesso potrebbero pertanto essere giustificati (solo) alla luce della necessità di individuarne uno adeguato alle esigenze che, caso per caso, si presentano”.
Nell’atto amministrativo di determinazione del porto di sbarco sicuro (POS) ricorre dunque un obbligo di motivazione rafforzato, che può essere sottoposto a sindacato giurisdizionale, al di fuori della pretesa natura di atto politico che si vorrebbe attribuire all’assegnazione del porto di sbarco, atto endo-amministrativo vincolato nell’an e discrezionale nel quomodo. Per la Cassazione “sono invece da ritenere estranee a tale ambito le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori”. E dunque appare irrilevante il frequente richiamo che si continua a fare in questa materia alle esigenze di “difesa dei confini“, o alle trattative con altri paesi dell’Unione europea al fine di una redistribuzione dei naufraghi, o dei richiedenti asilo.
3. […] Con un richiamo alla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001, la Cassazione censura la sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva negato ai ricorrenti qualsiasi diritto al risarcimento, affermando che sussisteva un difetto di motivazione in quanto i giudici di appello avevano omesso di valutare se il rifiuto dello sbarco, secondo “normale prudenza e diligenza, specie in considerazione della natura dei diritti in gioco” fosse motivato dal “convincimento della tollerabilità di un tale prolungamento del trattenimento dei migranti soccorsi a bordo della nave”. Anche questa valutazione sulla “tollerabilità del trattenimento” a bordo della nave soccorritrice potrebbe comportare conseguenze rilevanti sia sulla ammissibilità dell’assegnazione di porti sicuri di sbarco “vessatori”, eccessivamente lontani dal luogo del soccorso, sia sulle ipotesi di trattenimento ai fini della pre-identificazione, nel caso dei naufraghi soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali, e poi bloccati a bordo per giorni, in attesa di un successivo trasferimento verso i centri di detenzione previsti al di fuori del territorio italiano (e dell’Unione europea) in base al Protocollo Italia-Albania.
Per la Corte di Cassazione la responsabilità civile per danni non patrimoniali subiti dai naufraghi illegittimamente trattenuti a bordo della nave Diciotti non può essere esclusa per il fatto che il Senato avesse negato l’autorizzazione a procedere “nei confronti del Ministro dell’Interno (Sen. Matteo Salvini) richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato (art. 605, commi primo, secondo, n. 2, e terzo, c.p.”). Infatti il diniego dell’autorizzazione a procedere non può assumere rilievo quando “la lesione attinga, come nella specie, diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso”.
Dunque, “Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona, ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell’agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l’eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale”. […]
6. Questa volta l’attacco non si rivolge ad un singolo giudice, facilmente preda del dossieraggio, ma mira a screditare davanti all’opinione pubblica addirittura le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che non sarà facile spacciare per intero come “toghe rosse”.
Se è dovere del governo “difendere i confini nazionali”, come sostiene Tajani in un suo comunicato, è ancora più rilevante il dovere del governo tenuto a rispettare le decisioni definitive della magistratura, assunte nell’esercizio dei poteri giurisdizionali sanciti dalla Costituzione. Come ha ricordato la prima presidente della Corte, Margherita Cassano, “Le decisioni della Corte di Cassazione, al pari di quelle degli altri giudici, possono essere oggetto di critica. Sono invece inaccettabili gli insulti che mettono in discussione la divisione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto”.
Secondo la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati:, “Ancora una volta inspiegabile è la distanza tra il riconoscimento dei principi e l’applicazione degli stessi. Ora anche le decisioni delle Sezioni unite della Corte di Cassazione sono oggetto di attacchi ingiustificati, senza alcun rispetto per la separazione dei poteri. Ogni volta che una decisione è sgradita, viene collegata ad una valutazione ideologica. La Giunta dell’Anm non può che ribadire ancora una volta che la separazione dei poteri è un fondamento della civiltà giuridica, ed esprime solidarietà ai colleghi della Suprema Corte”.
Un sostegno ai giudici presi di mira dal governo è arrivato anche dal Consiglio superiore della magistratura: “Le Sezioni Unite della Cassazione sono composte da nove giudici e hanno, nel nostro ordinamento, un ruolo essenziale nell’indicare gli orientamenti della Corte Suprema. Le sue decisioni, certamente criticabili come ogni decisione giudiziaria, devono essere però rispettate perché a presidio del principio di eguaglianza e manifestazione del diritto di ricevere tutela giurisdizionale sancito dall’art. 113 della Costituzione. La Costituzione è un bene comune dei cittadini italiani e deve essere tutelata da tutti gli attori istituzionali”.
Se la giustizia è amministrata in nome del popolo, i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art.101 Cost.), e devono assolvere alle proprie funzioni giurisdizionali in piena indipendenza nel rispetto del principio di gerarchia delle fonti fissato dagli articoli 10 e 117 della Costituzione. E’ gravissimo che anche quest’ultima ordinanza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite venga strumentalizzata per un ennesimo attacco nei confronti dell’intera magistratura, magari a giustificazione della riforma che si propone il governo per aumentare i poteri di controllo dell’esecutivo nei confronti degli organi giurisdizionali. L’Italia non è ancora l’Ungheria di Orban e non lo diventerà mai. Che se ne facciano una ragione.
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Per la Cassazione il rifiuto del porto di sbarco non è “atto politico” – ADIF










