Dopo quasi 50 anni di detenzione arbitraria, l’attivista nativo americano, Leonard Peltier, il 18 febbraio scorso ha finalmente potuto fare ritorno a casa. Nella sua terra natia, la Riserva Indiana di Turtle Mountain, nel Nord Dakota ha ricevuto un’accoglienza trionfale.
«Sono fuori da quanto, una settimana? E ancora non riesco a credere che sia vero!», ha dichiarato Peltier al giornalista di AP poco dopo il suo rientro, dalla casa acquistata e arredata per lui dalla sua comunità. Dopo decenni di lotte per ottenere giustizia, l’attivista dell’American Indian Movement inaugura un nuovo capitolo della sua vita.
La notizia della clemenza ha colto tutti di sorpresa lo scorso 20 gennaio, negli ultimi 14 minuti della presidenza di Joe Biden. Un gesto inaspettato, dopo anni di battaglie legali e l’ultimo diniego alla libertà condizionale dello scorso luglio.
Poco più che trentenne quando venne condannato, oggi, l’ottantenne Peltier, in condizioni di salute precarie, può finalmente vivere a casa sua, circondato dall’affetto dei suoi cari.
La vicenda di Peltier affonda le radici nei periodi più bui della storia americana
Dopo quasi 50 anni di una detenzione arbitraria tra le più lunghe della storia USA, Leonard Peltier è stato finalmente liberato. La decisione è arrivata nell’ultimo giorno della presidenza di Joe Biden, in un gesto carico di significato politico e simbolico.
L’attivista nativo americano era stato condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI durante una sparatoria che avvenne nel 1975 nel Dakota del Sud, nella riserva di Pine Ridge. Tuttavia, la sua condanna è stata da sempre circondata da controversie, accuse di irregolarità processuali e mancanza di prove concrete.
Destino infausto quello di Peltier, che fu prelevato dalla sua terra e sottratto all’affetto della sua famiglia già all’età di nove anni. Dovette infatti essere “rieducato” a 240 km di distanza, all’interno di una delle famigerate scuole residenziali per indiani. Quelle che impartivano l’assimilazione culturale forzata dei bambini indigeni nella cultura bianca americana, mentre praticavano loro terribili vessazioni.
La prigionia politica più lunga d’America: una storia di ingiustizia e resistenza
Nel 1975, la riserva di Pine Ridge nel Sud Dakota era un focolaio di tensioni, alimentate dall’FBI come parte di un piano più ampio. Lo scopo era destabilizzare l’American Indian Movement (AIM), un’organizzazione che lottava – e lotta tuttora – per i diritti dei nativi. Leonard Peltier era tra i suoi membri più attivi.
In questo contesto, il 26 giugno 1975, scoppiò una sparatoria tra agenti dell’FBI e alcuni nativi americani, durante la quale persero la vita due agenti federali e un nativo.
Peltier fu arrestato e condannato, nonostante la mancanza di prove che lo collegassero agli omicidi. Nel tempo, emersero prove della manipolazione degli atti processuali, intimidazione dei testimoni e una condanna basata più su motivazioni politiche che su fatti concreti.
Peltier nel corso degli anni è diventato un simbolo delle ingiustizie subite dai nativi americani, un capro espiatorio per un sistema che ha storicamente oppresso le comunità indigene.
Decenni di appelli e pressioni hanno convinto il Presidente Biden a commutare la pena
Nei lunghi anni di detenzione, la causa di Peltier ha raccolto ampio sostegno a livello internazionale. Le maggiori organizzazioni per i diritti umani, leader tribali, premi Nobel, Papi, alcuni presidenti e anche giuristi esperti, hanno chiesto la sua liberazione. Tra questi ultimi, persino l’ex procuratore generale che si occupò del suo caso, chiese la clemenza per Peltier e definì il suo processo “ingiusto”.
Joe Biden, che durante la sua presidenza si è distinto per il suo impegno verso le comunità native, ha infine deciso di porre fine a questa lunga persecuzione. Nell’ultimo giorno del suo mandato, pochi minuti prima che Donald Trump prestasse giuramento, Biden ha infatti commutato la condanna di Peltier, permettendogli di trascorrere gli ultimi anni della sua vita agli arresti domiciliari, circondato dalla famiglia e dai suoi cari.
La scelta di Biden di commutare la pena anziché concedere la grazia rappresenta per molti un messaggio emblematico. Commutare una condanna non equivale a un perdono, ma riconosce che Peltier ha già scontato una pena sufficiente. Questo gesto è stato interpretato come un modo per bilanciare le pressioni dell’FBI, che si è sempre opposta alla liberazione di Peltier, con la necessità di correggere un’ingiustizia storica.
Finalmente a casa: un viaggio lungo 49 anni e la grande festa in suo onore
È stata tanta l’emozione del rientro, avvenuto un mese dopo l’atto di clemenza di Biden. Il pick-up che lo riportava finalmente a casa ha sfilato attraverso una catena umana lunga chilometri. Uomini, donne e bambini lo hanno atteso al freddo lungo le strade innevate nella Riserva Indiana di Turtle Mountain, nel Dakota del Nord, per dargli il benvenuto o, per meglio dire, il “bentornato” nella terra che gli diede i natali, ottanta anni fa.
La gioia della sua comunità è esplosa l’indomani, durante la festa organizzata in suo onore, tra canti e balli tradizionali e con centinaia di persone accorse a salutarlo e portargli i propri doni. Tra quelli più significativi, a Leonard Peltier è stato offerto il bastone dell’aquila. Un dono che racchiude una forte connotazione simbolica “per aver percorso migliaia di km lungo la strada per la giustizia”, come ha dichiarato la portavoce della comunità Lakota che glielo ha portato.
Il bastone dell’aquila donato a Leonard Peltier rappresenta un potente simbolo di riconoscimento per il suo impegno nella lotta per la giustizia. L’aquila, animale sacro per i nativi, incarna la connessione con il Grande Spirito, la saggezza e la resilienza.
È un tributo alla determinazione di Peltier e al suo ruolo come simbolo di resistenza e di equilibrio tra il mondo materiale e quello spirituale. Il suo uso simboleggia il rispetto per la tradizione e la capacità di chi lo porta nel guidare e proteggere il proprio popolo.
La liberazione di Peltier e il significato che riveste per i popoli nativi
Ad introdurre il discorso di Leonard Peltier, durante la grande festa in suo onore, è stato Nick Tilsen, presidente e CEO del collettivo NDN, in difesa dei diritti dei nativi. Tilsen ha aperto il suo intervento rendendo omaggio alle generazioni precedenti di attivisti, riconoscendo il coraggio di Leonard Peltier e dei suoi predecessori che hanno lottato contro un governo determinato a distruggere la cultura e la spiritualità dei superstiti popoli nativi.
Nick Tilsen ha sottolineato che la libertà di Peltier è il risultato di un lungo cammino di resistenza. I sacrifici delle generazioni passate, molte delle quali non sono riuscite a vivere per vedere questo momento, hanno però gettato le basi per il cambiamento. Il presidente di NDN ha celebrato il ritorno di Leonard Peltier come una vittoria nella lunga lotta di 500 anni per la resistenza indigena.
Tilsen ha aggiunto che Peltier in 49 anni non solo non ha mai rinunciato a combattere per se stesso, ma non ha mai neppure rinunciato a combattere per il popolo nativo. Per questo, ha continuato il presidente: «In tutto il mondo, il nome di Leonard Peltier sarà ricordato come quello di un guerriero, un guerriero che è sopravvissuto a uno dei governi più forti del mondo ed è uscito vittorioso».
Il discorso di Leonard Peltier durante le celebrazioni per il suo rientro a casa
«Un guerriero non può piangere» ha aperto così il suo discorso, Leonard Peltier, durante la festa organizzata in suo onore il 19 febbraio scorso. Proprio per il timore di commuoversi, ha parlato solo pochi minuti di fronte alle centinaia di persone presenti: «Sono stato condannato per qualcosa che non ho fatto. Ero un giovane uomo quando sono entrato in prigione, avevo 32 anni. Oggi ne ho 80, e non pensavo di farcela».
Peltier ha sottolineato l’ingiustizia del suo caso, ricordando che i suoi coimputati furono assolti per legittima difesa, mentre lui divenne un capro espiatorio. Nonostante le sofferenze, tra cui celle di deprivazione sensoriale e cure mediche negate, Peltier ha mantenuto viva la lotta per i diritti dei nativi: «Ho fatto in modo che i problemi degli indiani fossero al centro della mia battaglia».
Oggi, circondato dalla sua comunità, Peltier ha espresso gratitudine: «Grazie per il vostro sostegno. Sono orgoglioso di aver sacrificato la mia libertà per voi». L’attivista, commosso, ha ringraziato le innumerevoli azioni intraprese nei lunghi anni di detenzione da migliaia di persone nel mondo e da centinaia di comunità indigene.
Chi è davvero Leonard Peltier e cosa desidera fare d’ora in avanti
Nonostante il felice epilogo, possiamo sostenere, senza timore di smentite, che a Leonard Peltier sia stata rubata la vita. Possiamo però anche dire che questo gesto di clemenza tardiva e inaspettata dell’ex Presidente americano e, come sostengono in molti, della sua segretaria degli Interni – nativa – Deb Haaland, gliel’abbiano in qualche modo restituita. Specie adesso che ha finalmente accesso a cure mediche per le sue gravi condizioni di salute, tra cui un aneurisma aortico.
Nei lunghi anni di detenzione Peltier ha impiegato il suo tempo scrivendo libri e usando l’arte visiva come mezzo nonviolento di espressione e di denuncia delle ingiustizie vissute dal suo popolo. Dichiara oggi di voler continuare a sostenere la causa dei nativi americani resistendo contro le ingiustizie per mezzo di azioni nonviolente, cosciente che la strada sia ancora lunga.
Oggi Leonard Peltier, nonostante sia ormai a casa, circondato dall’affetto dei suoi cari e della sua comunità, si sveglia ancora nel cuore della notte, temendo che tutto sia un sogno e di essere ancora in prigione, come dichiarato a The Associated Press.
L’attivista nativo vorrebbe ora guadagnarsi da vivere vendendo i suoi quadri, come faceva in prigione, e vorrebbe scrivere altri libri. Desidera inoltre formare i giovani sulle sfide che dovranno affrontare. Peltier ha recentemente dichiarato che osservare l’impegno dei giovani attivisti nativi mentre continuano la lotta per i diritti della sua gente lo fa stare bene, poiché sente che i suoi 49 anni di prigionia non sono stati vani.
Un’antica profezia che qui vale la pena ricordare
Qualche mese fa ho avuto l’onore di leggere un libro davvero speciale, Sacred instructions, di un’avvocata e attivista nativa di nome Sherri Mitchell. È un libro che nasce dalla volontà di trasmettere un’antica saggezza, attingendo alla conoscenza ancestrale indigena, nativa. Il capitolo finale riporta alcune antiche profezie.
Una di queste, la profezia Anishinaabe dei Sette Fuochi, che, come le altre citate nel libro, viene tramandata da sette generazioni, narra di sette profeti che si presentarono alla gente Anishinaabe (Peltier è di discendenza Anishinaabe) e raccontarono del loro viaggio nel futuro. La riporterò molto brevemente per esigenze di sintesi.
Nella profezia si racconta che il viaggio sarebbe stato segnato da sette fuochi e sarebbe cominciato e finito in una terra dalla forma di tartaruga (“turtle” in inglese). In tempi di grandi calamità sarebbe arrivata “gente nuova”, che si sarebbe svegliata dalle nebbie dell’illusione. Quelle persone sarebbero ritornate sui loro passi e avrebbero ricordato gli insegnamenti originali.
Questa nuova gente avrebbe cercato la saggezza degli anziani e chiesto loro consigli. Allora la “gente dalla pelle chiara”, se avesse imparato ad avere fiducia nelle vie del cerchio e si fosse addestrata a sentire la propria voce interiore, avrebbe potuto scegliere tra due sentieri.
Se avesse scelto il sentiero errato, sarebbe rimasta chiusa nella sua vecchia mentalità e la stessa devastazione che aveva perpetrato l’avrebbe distrutta. Se invece avesse scelto il sentiero giusto, il Settimo fuoco li avrebbe aiutati ad accendere anche l’Ottavo fuoco: un fuoco duraturo di unità e di pace.
L’autrice ci ricorda che lo stile di vita indigeno è il sentiero che ci riporta verso la vita e l’armonia con il resto della creazione e che tutte le profezie native convergono nell’attribuire alla settima generazione – che sarebbe la nostra – quell’epoca decisiva che viene raccontata nelle antiche profezie.
Trovandoci ora a quella biforcazione della strada, la Mitchell si interroga: «Cosa farà la “gente dalla pelle chiara: resterà sul sentiero attuale o sceglierà il sentiero dell’unità e della pace?».