Su segnalazione di Ugo Mattei – dalla sua pagina social – pubblichiamo un ampio stralcio del contributo di Elisabetta Grande, esperta di politica del Nord America. La nostra giurista svolge un’attenta disamina sui veri obiettivi strategici perseguiti dall’amministrazione trumpiana, mentre l’attenzione generale «è concentrata sulle misure spettacolari rivolte contro migranti e prigionieri – per antonomasia responsabili di tutti i mali – assai più in sordina Trump sta preparando il terreno affinché chi davvero farà del male al Paese, mettendo il proprio profitto sopra il benessere di tutta la gente, base MAGA compresa, lo possa fare senza il disturbo di quel “cancro” – come lo ha chiamato – rappresentato dal controllo statale»[accì]
I primi violenti executive orders di Trump soddisfano la base MAGA e distolgono anche dal suo reale proposito: estirpare il “cancro” del controllo statale.
Dal giorno dell’insediamento di Trump negli Stati Uniti la cattiveria istituzionale sembra far sempre più bella mostra di sé. Apparire brutali nei confronti dei più vulnerabili – che siano essi migranti, accusati di aver commesso reati o prigionieri – è divenuto motivo di vanto. Un tempo si era cattivi, ma non lo si mostrava; oggi si è cattivi con orgoglio, negli Stati Uniti come in Medio Oriente. La foto dei migranti in via di deportazione in manette, apparsa sul sito della Casa Bianca, con il sottotitolo “I voli di espulsione sono iniziati. Promessa fatta, promessa mantenuta”, è l’emblema di quella nuova malvagità del potere sbandierata con orgoglio.
Gli executive orders trumpiani che bloccano l’arrivo di stranieri da tempo in attesa di sbarcare da Paesi in cui la loro vita è in pericolo a causa di guerre combattute in prima persona (Afghanistan) o sostenute (Ucraina) dagli Stati Uniti; che invocano l’emergenza nazionale al fine di inviare un più alto numero di militari al confine e di sviare i fondi necessari alla costruzione di muri, senza l’approvazione del Congresso, per “sigillare” le frontiere; che impongono nuovamente ai migranti non messicani di ritornare in Messico per chiedere l’asilo politico e che chiariscono come chi migra costituisca in ogni caso un pericolo per la salute pubblica; che stabiliscono come gli agenti dell’immigrazione possano entrare anche nei luoghi da sempre considerati protetti, quali ospedali, scuole, chiese; che impongono ai procuratori federali di perseguire gli agenti locali che non collaborino con le forze federali nell’arresto dei migranti; o che paventano addirittura l’uso di una normativa che consentirebbe a Trump di dichiarare guerra ai migranti “invasori” sono, fra gli altri, i primi passi mossi dal nuovo presidente contro chi – particolarmente vulnerabile – ha accarezzato il sogno di trovare rifugio negli States.
A chiudere il cerchio del respingimento a tutti costi dello straniero sta poi l’ordine esecutivo – per il momento azzoppato da una corte di distretto federale – che, in pieno contrasto con il XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, vorrebbe togliere la cittadinanza a chi nasce in terra americana.
Anche gli executive orders che vedono come bersaglio i prigionieri federali, i quali potranno nuovamente essere detenuti in istituti gestiti da privati – che notoriamente vedono un più elevato tasso di violenza contro i carcerati – e dovranno, se transgender, essere necessariamente trattenuti insieme a chi ha il medesimo sesso assegnato alla nascita – con i seri pericoli di abusi da parte degli altri detenuti, soprattutto se sono transgender donne – rappresentano altrettante manifestazioni di cattiveria istituzionale.
Così come appare coerente con l’intenzione di mostrare un sistema dal volto crudele la spinta verso una più estesa applicazione della pena di morte racchiusa negli executive orders trumpiani, con i quali il nuovo presidente domanda ai procuratori federali non solo di farne più spesso richiesta – soprattutto nei confronti dei non cittadini – ma anche di avocare a sé le indagini di casi statali che possano portare alla sua applicazione. L’indicazione, poi, rivolta ai rappresentanti del dipartimento di giustizia, di rimettere in discussione presso la Corte Suprema quegli avanzamenti di civiltà, a fatica raggiunti nel tempo, ottenuti con le pronunce che evitano oggi la pena capitale ai bambini, ai mentalmente disabili o a chiunque non abbia commesso un omicidio, raggiunge un livello perfino più alto di spietatezza.
E mentre i raid della polizia dell’U.S. Immigration and Customs Enforcement (ICE) rastrellano tutto il Paese con grande clamore mediatico, arrestando e deportando migliaia di migranti illegali – accusati o condannati per reati anche lievi – la domanda è: a che pro tutto ciò? Qual è, insomma, la vera ragione di cotanta appalesata malvagità?
Non si tratta probabilmente di cattiveria fine a sé tessa, quanto piuttosto di soddisfare i desideri più crudi e sanguigni di una base MAGA, convinta che tutti i problemi che la assillano dipendano dai migranti e dalla mollezza istituzionale nei confronti di chi viola le regole, al fine di occultare ciò che – a un livello meno visibile – sta accadendo. Pare, insomma, un utile diversivo, uno specchietto per le allodole vecchio come il cucco, che tuttavia nei momenti opportuni funziona bene per nascondere ai più ciò che si muove in profondità.
La vera partita che – fin dal primo momento in cui si è insediato nella presidenza – Trump si è messo a giocare riguarda, infatti, la cancellazione del così detto big government, ossia di quell’apparato amministrativo che nasce ai tempi di Theodore Roosevelt e cresce soprattutto con F.D. Roosevelt. Costituito da una classe di civil servants, impiegati di carriera, politicamente indipendenti, assunti stabilmente sulla base del merito per garantire continuità ai governi presidenziali, è la struttura burocratica deputata a innervare quel capitalismo dal volto umano nato per limitare gli eccessi e l’ingordigia dei robber barons della Gilded Age. Con le sue pensioni di vecchiaia, i sussidi di disoccupazione, il salario minimo, l’aiuto alle mamme single e un nuovo e penetrante controllo sul business, il New Deal del secondo Roosevelt aveva dato vita, infatti, alle agenzie amministrative federali, incaricate di amministrare i programmi di servizio sociale e dare applicazione – anche in maniera creativa- alle norme volte a regolamentare le imprese a tutela della collettività. Si tratta del così detto “Stato interventista o amministrativo”, ossia di un’“amministrazione” che già alla fine degli anni Trenta aveva “sostituito il giudiziario come principale forma di controllo del business” (così James M. Landis, nel suo The Administrative Process, 1938).
Dopo l’elezione di Donald Trump è proprio questo apparato amministrativo (detto anche deep state) – votato a un tempo a distribuire ciò che da Ronald Reagan in poi è rimasto dei programmi sociali di F.D. Roosevelt e di Lyndon Johnson, nonché a porre un freno ai profitti esagerati del business corporate, ottenuti sacrificando i bisogni collettivi – a correre il serissimo rischio di essere smantellato. È questo, infatti, il piano della Heritage Foundation, che ha preso il nome di Project 2025 e che trova ottima illustrazione nel libro di Newt Gingrich – un tempo speaker della Camera per i repubblicani – Defeating Big Government Socialism: Saving America’s Future (2022), laddove il sottotitolo di un capitolo è significativamente: “Ribaltare Roosevelt”.










