È prassi consolidata di tutti i governi che si succedono in Italia mettere mano ad una “riforma della scuola”, purtroppo con danni spesso irreparabili; come se un irrefrenabile delirio di potenza nel “segnare” le generazioni future, riuscisse a tramandare le idee di chi governa e garantirne un ricordo perenne.

L’intento è sempre impositivo, da qualunque parte politica avvenga, se non punitivo nei confronti di un mondo scolastico, docenti e studenti, considerato troppo “di sinistra”. Due esempi per tutti: la Legge Tremonti – Gelmini nel 2008, che mise in atto la più grande sottrazione di risorse finanziarie alla scuola italiana e un aumento del numero di alunni nelle classi; la riforma renziana della cosiddetta “Buona Scuola”, nel 2015, un vero bluff pedagogico che neanche uno sciopero a cui aderirono l’80% delle scuole su tutto il territorio nazionale riuscì a fermare, con conseguenze ancora oggi irreversibili sulle politiche di “aziendalizzazione” della scuola, come l’avvio dei famosi percorsi di Alternanza scuola-lavoro.

Ciò che però è sotto gli occhi di tutti è la crescente ed esplicita dequalificazione della funzione docente, della scuola e dell’università come servizio pubblico, che negli anni è stata portata avanti in nome di una logica di completo asservimento ad un sistema valoriale nel quale si perde la finalità della formazione. Gli studenti sono stati trasformati in futuri produttori di mansioni e compiti per un mercato instabile, formato da aziende incapaci di proporre prospettive di mobilità diverse dal precariato e da una povertà di tutele, soprattutto in ordine alla sicurezza dei luoghi di lavoro.

Lo scenario proposto dal Governo Meloni, in questa prima fase di riforme scolastiche, non offre alcuna novità sostanziale rispetto alle politiche di taglio alla spesa per l’Istruzione pubblica attuate da tutti i governi, senza alcuna discontinuità. Tra i nodi strutturali non affrontati dalle politiche governative l’edilizia scolastica, l’assenza delle mense, la riorganizzazione complessiva dei servizi per implementare l’accessibilità e ridurre i costi alti che le famiglie sostengono ancora per l’istruzione che in tanti aspetti rimane gratuita solo di diritto ma non di fatto.

Tra i costi segnati duramente dalla crescita dell’inflazione nell’ultimo triennio, si segnalano l’aumento della spesa dei libri e dei materiali didattici, dei trasporti e delle abitazioni per i fuori sede. Né è stato affrontato seriamente, nonostante l’esperienza pandemica, il problema delle “classi-pollaio”, una rappresentazione disfunzionale che oltre ad assumere implicazioni pedagogiche forti, trasforma anche le scuole in luoghi compulsivi di conflitto tra le parti sociali, spazi di relazione vocati alla dispersione degli studenti e al fallimento dei progetti formativi.

In troppi casi, in particolare nelle periferie, l’istruzione pubblica costituisce l’unica occasione per diminuire il divario e compensare le disuguaglianze sociali; al contrario, prosegue inesorabile l’accorpamento di molti istituti e la conseguente riduzione di scuole sul territorio, segno di indifferenza verso un’idea di scuola che ancora considera la comunità un presidio di partecipazione, uno spazio vitale di tutela dei diritti, di crescita e formazione.

Nel prossimo triennio si ipotizza la chiusura di 7.000 istituti ad opera delle Regioni che vengono investite di compiti che generano e rafforzano un meccanismo ricattatorio. Nei casi infatti in cui le stesse non opereranno i tagli previsti nella programmazione potranno essere sostituite dal ministero, in nome di un finto decentramento, di un’autonomia parziale. Anche questo vincolo che lede l’autonomia delle regioni obbedisce al principio dell’autorità indiscussa dello stato centrale.

Ma qual è l’idea di scuola di questa destra al governo? L’intento è chiaro già con il primo provvedimento, quello di modificare l’intestazione Ministero dell’Istruzione (una volta, ahimè, della “Pubblica Istruzione”) in Ministero dell’Istruzione e del Merito, quando per merito si intende, come ha dichiarato il Ministro Valditara “non il raggiungimento di obiettivi quasi impossibili, riservati a pochissimi”, ma “tirar fuori il meglio che ciascuno può dare di sé con l’impegno”, in una scuola, aggiungiamo noi, con gravi divari territoriali che svantaggiano fasce sempre più numerose di alunni e alunne e con livelli di partenza economico-sociali così differenziati da rendere impossibile colmare il gap per il raggiungimento di obiettivi comuni.

D’altronde, con l’avvio del sistema di autonomia differenziata previsto dal disegno di legge del Ministro Calderoli, anche la scuola cambierà volto. Sarà una scuola a due velocità, in cui le differenze territoriali, già marcate, diventeranno irreversibili. Anche il progetto di riordino dell’istruzione tecnico-professionale, con la proposta di ridurre a quattro anni il percorso formativo degli istituti tecno-professionali e con l’inserimento di personale esterno proveniente dal mondo delle imprese, tende ad allineare gli istituti alle offerte del territorio e alle esigenze del mondo imprenditoriale, a scapito del ruolo educativo della scuola e con il rischio di disparità formative tra i vari territori del paese.

Alla base delle politiche scolastiche del governo e dell’azione del ministro Valditara (che, ricordiamo, fu il relatore della riforma Gelmini in Parlamento), vi è una concezione politica fortemente ideologizzata nella categoria del paternalismo. Gli adolescenti sono esseri fragili, vulnerabili, immaturi, a razionalità limitata, esposti alle pulsioni della natura ed alle insidie del mondo, incapaci di scegliere fra il bene e il male, di raggiungere un grado di cittadinanza consapevole oltre che di prendersi cura della cosa pubblica. In questa direzione si comprendono le misure di contrasto alle occupazioni ed alle iniziative di autogestione studentesche nelle scuole, motore di contenimento dell’apatia e occasioni esperienziali di contatto con la sfera politica per dare voce ai bisogni dei più giovani.

Ridimensionato l’esercizio del pensiero critico gli studenti vengono ridotti ad una condizione minoritaria, bisognosi di tutela e di guida autoritaria.
Il paternalismo è uno strumento che serve a giustificare il potere, un modo per generare consenso prescindendo dall’analisi delle emergenze educative e sociali. Viene invocato perché l’azione del governo possa farsi riconoscere e accettare, rafforzare la propria legittimità annullando la dialettica tra le parti sociali.

In questo quadro si inserisce l’approccio esclusivamente punitivo di inasprimento delle norme relative al voto di condotta delineato nel disegno di legge sulla valutazione del comportamento, che entrerà in vigore dal prossimo anno scolastico.
La funzione formativa della scuola è infatti ridotta ad un mero calcolo dei “delitti e delle pene”: maggior peso al voto di condotta nella valutazione generale, che può portare alla non ammissione alla classe successiva e a sanzioni economiche in caso di danni materiali o morali in cui si lede la dignità dell’istituzione scolastica.

“La riforma rappresenta il primo passo verso una scuola repressiva e senza una vera finalità educativa”- sottolineano gli studenti di varie associazioni del mondo della scuola. “ Gli studenti sono sempre più criminalizzati e non ricevono una formazione ispirata al confronto e al dialogo. Aumentare le sanzioni non sarà mai un deterrente, le situazioni di disagio si affrontano con nuove forme di scuola inclusiva e con presidi psicologici”.

Un paternalismo che investe anche i docenti, ponendoli sotto la tutela della Avvocatura generale dello Stato per la difesa in sede di giudizio civile e penale; cavalcando l’allarme sull’aumento di episodi violenti da parte di alunni e genitori trasforma la loro integrità professionale e deontologica in uno stato di precarietà fisica, omettendo, al contempo, di affrontare le vere ragioni che nel corso degli anni hanno reso questa professione scarsamente attraente e poco autorevole agli occhi di famiglie e alunni, ad esempio gli stipendi che rimangono tra i più bassi in Europa.

Ma il fiore all’occhiello della propaganda governativa può considerarsi l’istituzione di un nuovo liceo del “Made in Italy”, in grado di conciliare cultura e identità, “promuovere le conoscenze e le abilità connesse all’eccellenza dei prodotti e della tradizione italiana”, così come sbandierato dalla stessa premier Meloni con grande entusiasmo autarchico.
Nato sotto l’egida del Ministero delle Imprese e del Made in Italy con l’intento di sostituire il Liceo delle Scienze umane ad indirizzo economico-sociale (LES), un liceo in forte espansione dalla sua istituzione nel 2010, il progetto è stato ridimensionato in fretta e furia, dopo le proteste di docenti, alunni e genitori che con il Comitato “Salviamo il LES” hanno raccolto più di 7 mila firme.

A conclusione di un iter frettoloso in vista della scadenza delle iscrizioni per le famiglie, la proposta ha raccolto un numero di adesioni talmente basso, circa 15 classi in 114 Licei delle scienze umane autorizzati a richiederlo in tutto il territorio nazionale, lo 0,08 % degli alunni iscritti per il prossimo anno scolastico, tanto da essere considerato un vero e proprio flop. Né sorte migliore è toccata alla sperimentazione quadriennale degli istituti tecnici e professionali, nonostante il Ministro Valditara parli di grande successo.

Tanto rumore per nulla, si potrebbe concludere, ma così non è purtroppo. La capacità di resilienza della scuola italiana in anni e anni di riforme calate dall’alto, viene messa ancora una volta a dura prova da scelte meramente ideologiche e lontane dai reali bisogni sociali e, ancora una volta, la scuola dovrà trovare gli anticorpi necessari a proseguire quel cammino democratico che da sempre la contraddistingue.