“A che i poeti nei tempi bui?” Questo verso di Hölderlin, ripetuto da Heidegger, riecheggia frequente in questi nostri anni di inquietudine e cordoglio. Davvero la poesia con la sua “bellezza salverà il mondo”, come si augurava Dostoevskji? E in che modo la lirica può divenire parresia, “coraggio delle parole”? Ce lo mostra Francesca Traìna nella sua ultima raccolta (Il coraggio delle parole, Robin Edizioni, Vignate – Milano, 2023).

La sua persona, intanto, è esile e fiera; la sua voce, musicale e calda, ti suona dentro mentre leggi i suoi versi, quasi fosse lei a recitarli per te e per le compagne attorno; la sua esistenza è un impegno ininterrotto nel movimento delle donne e nell‘UDI di Palermo, e al contempo è una vita dedicata alla scuola, da insegnante di lettere prima e da direttrice poi di un antico Educandato Femminile, da lei trasformato in istituto aperto ai ragazzi oltre che alle ragazze.

E quel luogo, in seguito alla sua iniziativa, ha acquistato un sapore magico: il chiostro delle rose circondato dalla biblioteca, dalla sala di musica, dal teatro ha ospitato letture, mostre, conferenze e spettacoli all’insegna di Simone Weil o delle più grandi scienziate, mentre dalle ali laterali dell’edificio sciamavano nel primo meriggio assolato bimbe e bimbi festosi dopo le ore d’asilo.
Quel luogo m’è sempre parso la sua casa dell’anima, la casa della sua poesia, così come il giardino sul mare della sua infanzia e d’una giovinezza struggente e intensa, che lei ci ha svelato nei suoi versi, invitandoci a condividerne “mestizia e mistero”.

Tante le sue opere, anche di saggistica, e tanti i premi, ma soffermiamoci su quest’ultimo lavoro.
Grazie a una scrittura meditata e sapiente, che sa intrecciare la congruenza del narrare con l’ariosità della metafora, come sottolinea Maria Attanasio nella quarta di copertina, Traìna si racconta mentre ci racconta di generazioni di donne, nei cui corpi s’incarnano guerre, migrazioni, discriminazioni e violenze, ma anche amori, affetti e memorie, che sfumano dalla malinconia alla luce, dal chiarore lunare al baluginìo dell’acqua.

La dedica è “alle donne della mia vita”, che con lei hanno “attraversato il tempo e le emergenze dell’anima… una genealogia costruita con fatica dall’alto magistero delle madri”. Ci sono immagini e temi ricorrenti: la tela, il vento, le stagioni, il tempo, la mutevolezza e la stabilità dei sentimenti.

Il primo capitolo, che dà il nome a tutto il libro, schiude, con il silenzio necessario al raccoglimento, “le stanze di una lunga narrazione”, che dà voce a “donne d’un solo popolo”, armene forse o magari curde, yemenite sudanesi o israelo-palestinesi, o forse ancora noi stesse, donne tutte “d’un popolo spaccato, diviso” il cui esito è la perdita. Di qui il dovere della parresia: “ma bisognerà dirlo con parole chiare/che il mondo è in guerra” e che “non c’è bellezza ovunque/si mandi a morte anche solo un cuore”. E con la guerra è sconvolto “il ritmo della terra/perché ne hanno scardinato il centro,/perché le bestie hanno perduto il passo/e con zoccoli duri ne sovvertono le zolle.” Non c’è empatia possibile tra i viventi tutti, salvo che nella contemplazione, “nel lontano delle stelle”.

Il secondo capitolo sfoglia Palermo, di piazza in piazza, di strada in strada; Palermo è “la mattanza dei gelsomini”. Il terzo, Inizio e fine della strada, ripercorre la genealogia delle madri, con tracce di poete come Emily Dickinson, Marina Cvetaeva o Anna Achmatova. Vi compare la figura di Nina, “la matta del piccolo paese”, “morta sotto il ponte dei fiori./L’hanno ammazzata a colpi di pietra./Stuprata prima, poi trascinata nel dirupo”. E un accorato richiamo a Pasolini. “Noi – marchiate dalla costola d’Adamo -/siamo rinate dal dolore/per darci libertà./ Tu – dal tuo mare speziato -/ continua anche per noi/ a disfare l’ordito di chi ha tessuto/ regole e valori per espropriarci/della nostra soggettività”.

Come un canto privato dice d’amore e d’amori sullo sfondo delle moltiplicate lune di Leopardi o con l’impiego di correlativi oggettivi che sono omaggio a Montale: “colori assolati di zolle ritorte/povere d’acqua e di frutti” disegnano la “spartenza”. “La Merica accolse generazioni di emigranti./Oggi ci torna in faccia l’urto di altre povertà.”

Le ultime poesie, contenute in Aria e Blues, accennano alla “deriva dell’essere” lungo “alfabeti plurali”, alla “assenza” che “ti sfianca e ti affianca”, per concludere con una modesta ma determinata sicurezza: “da funambola oscillo più sicura”.

Chiude questa preziosa silloge il poemetto, che potremmo definire (ma ogni etichetta è riduttiva e impoverisce) antimilitarista e nonviolento, Neve di marzo. Fu composto dopo le stragi del ’92, recitato con l’accompagnamento della fisarmonica di Giuseppe Milici ed edito dall’Istituto Gramsci Siciliano nel 2015. Ecco l’incipit. “Avvertii la notte ch’era ancora sera/assordante il pianto delle madri.//Non andare soldato – non andare -/ è piovuto stanotte/più in alto la neve ha ricoperto i corpi/non andare”.

Sì sì, serve dunque la poesia in questi tempi bui, a schiarire i pensieri, a rincuorare dallo smarrimento, a ritrovare sodali, a continuare il cammino insieme “a pugno chiuso”.