Vorrei ricordare Paolo Taviani con quanto avevo scritto nel 1977, subito dopo aver lavorato con lui e Vittorio sul set del film Padre padrone – pubblicato poi nella monografia a loro dedicata nella collana Contemporanea Cinema (Moizzi Editore).
Nel suo romanzo Padre padrone Gavino Ledda racconta la storia della sua vita: simile, all’inizio, a quella di tanti pastori sardi, portati via ancora piccoli dalla scuola e cresciuti nella solitudine degli ovili e dei pascoli, ma poi caratterizzata dalla sua emancipazione, attraverso lo studio, dall’ordine patriarcale e immutabile che lo teneva prigioniero.
Alla ricerca di una storia che potesse mostrare il concretizzarsi dell’utopia nella realtà, i Taviani decisero di trarne un film: le riprese iniziarono nell’ottobre 1976 e durarono otto settimane nei solenni scenari naturali della Sardegna.
Un’esperienza non comune sia sotto il profilo cinematografico, sia per il rapporto con una realtà sociale e umana così “diversa”, grazie anche alla collaborazione di numerosi sardi sia come “attori” sia come collaboratori della troupe.
Film “contadino”, “meridionalista”, Padre padrone è soprattutto un film sul linguaggio. Nella prima parte del film, sotto la dura guida paterna, Gavino bambino deve imparare a riconoscere, fin dall’inizio, il fruscio della quercia, lo scroscio della fonte, il rumore degli zoccoli, vittima di meccanismi di segregazione e di esclusione che lo sprofondano sempre di più nella solitudine.
La musica è il punto di partenza del riscatto di Gavino, che vede la sua possibilità di liberazione solo nella fuga.
Con il servizio militare il suono si fa linguaggio e prosegue nello studio del Latino, del Greco e della glottologia. Solo con uno stacco netto si può rompere una soggezione secolare.
Anche se alla fine del film lo stesso Gavino Ledda nella parte di se stesso dichiara di aver dovuto “tornare qui al paese, ad onta di mio padre” perché “lontano dalla mia tana e dalla mia gente, tornerei ad essere muto come quando ero nelle tanche di Baddevrustana”.
Il clamoroso successo ottenuto nel 1977 con la Palma d’Oro al Festival di Cannes non ha certo meravigliato chi da anni vede nei Taviani i portatori di un nuovo modo di fare cinema.”
Avevo 28 anni quando ho avuto la grande opportunità di fare l’aiuto-regista di Padre padrone – ed è stata anche la prima volta che lavoravo in un film insieme a mia moglie Giovanna Cossia, aiuto costumista di Lina Nerli (moglie di Paolo). Un’esperienza straordinaria per entrambi, che ci ha spinto a “guardare più in là”…
Quando 10 anni dopo abbiamo iniziato il nostro progetto di “video-documentaristi indipendenti sui problemi dello sviluppo”, abbiamo fatto tesoro di questa straordinaria esperienza!
E in America Latina, in Africa, in Medio Oriente, in Asia, ogni volta che incontravamo cineasti locali, scoprivamo che avevano ammirato e amato Padre padrone e questo costituiva di per sé un legame tra noi e realtà così diverse e lontane, ma che avevano radici comuni nel mondo pastorale e contadino da cui tutti veniamo.