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La fame è un crimine di guerra: nota dal genocidio israeliano contro i palestinesi

La carestia incombe su Gaza a causa del rifiuto di Israele di far entrare i camion degli aiuti nel territorio assediato. Ciò viola le Convenzioni di Ginevra, secondo le quali “è vietato affamare i civili come metodo di combattimento”: la fame è un crimine di guerra

Parlando a Roma, in Italia, il capo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, Cindy McCain, ha dichiarato: “Se non aumentiamo in modo esponenziale gli aiuti che arrivano nelle aree settentrionali” di Gaza, “la carestia è imminente. È imminente”. Oltre 30.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dalla guerra genocida israeliana e i palestinesi di Gaza sono sull’orlo della carestia. L’osservatore permanente della Palestina presso le Nazioni Unite Riyad Mansour ha dichiarato che oltre mezzo milione di persone sono “a un passo dalla carestia”. “Cosa significa per le madri e i padri sentire i loro bambini e le loro bambine piangere di fame giorno e notte, senza latte, senza pane, senza niente”, ha aggiunto. In effetti, neonati e bambini hanno già iniziato a morire a causa delle condizioni di carestia a Gaza. Con il Ramadan già iniziato, la situazione non è solo fisicamente acuta, ma anche mentalmente tormentosa. Attualmente ci sono 2.000 operatori sanitari che stanno facendo del loro meglio per fornire assistenza medica di base nel nord di Gaza. Lavorano senza accesso alle strutture ospedaliere e spesso senza energia elettrica o acqua, e con scorte di medicinali molto limitate. Ora, il Ministero della Sanità palestinese a Gaza ha dichiarato che questi operatori sono essi stessi in una situazione disastrosa. Il personale, ha dichiarato il Ministero, “inizierà il Ramadan senza i pasti del Suhoor e dell’Iftar”. “I medici moriranno. Gli infermieri moriranno. E il mondo sarà testimone del maggior numero di vittime della fame nei prossimi giorni”, ha dichiarato Ashraf al-Qudra, portavoce del ministero.

abstract dell’articolo di Vijay Prashad su SerenoRegis

 

Europarlamento contesta il Patto EGITTO-UE. Come intende la Commissione-Von der Leyen «garantire la tutele dei diritti dei migranti»? I maggiori contrasti dell’emigrazione clandestina previsti e l’esternalizzazione delle frontiere prefigurano nuovi lager all’ombra delle piramidi?

L’accordo siglato domenica con al-Sisi prevede un finanziamento di 7,4 miliardi di euro per il triennio 2024-2027. Seicento milioni in sovvenzioni, duecento dei quali per la gestione delle migrazioni: sicurezza dei confini, formazione di manodopera qualificata, misure per favorire la migrazione legale e scoraggiare quella irregolare

Appena il tempo di firmarlo e l’accordo siglato domenica dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi finisce già in un’interrogazione alla Commissione Ue. A presentarla è stata ieri la vicepresidente dell’Eurocamera Pina Picierno (Pd) chiedendo di sapere se il patto – che tra le altre cose prevede maggiori controlli alle frontiere del paese nordafricano per arginare le partenze dei migranti – «sia conforme ai principi che regolano gli aiuti dell’Ue, come intende garantire una condizionalità per il pieno rispetto dei diritti umani e salvaguardare la tutela dei diritti e dell’incolumità dei migranti». Non è la prima volta che la politica di esternalizzazione delle frontiere europee perseguita da von der Leyen e dalla premier italiana Giorgia Meloni (protagonista anche dell’intesa con il Cairo), finisce nella bufera. La scorsa settimana era stato il Memorandum siglato a luglio dello scorso anno con il presidente tunisino Kais Saied a finire nel mirino degli eurodeputati che hanno chiesto chiarimenti su un finanziamento di 150 milioni di euro verso un paese nel quale si registra «un deterioramento dello stato di diritto». Accordo, quello con Tunisi, sul quale in precedenza si era espresso criticamente anche il Consiglio europeo. Quando mancano ormai tre mesi alle elezioni europee, dove l’ex ministra di Angela Merkel punta a un secondo mandato alla guida della Commissione, quelli che dovrebbero essere accordi «storici» (la definizione è di Giorgia Meloni) rischiano di diventare altrettanti ostacoli per von der Leyen, alla quale viene contestata la scelta di scendere a patti con gli autocrati presenti sull’altra sponda del Mediterraneo.

estratto da ilManifesto

 

Per la prima volta l’Unione Europea userà fondi comuni per la produzione di armi: la Commissione destina 500 milioni di euro per accrescere la produzione industriale di armamenti nel continente

Nello specifico sono stati finanziati 31 progetti con l’obiettivo di accrescere la produzione di 4.300 tonnellate l’anno di esplosivi, 10 mila tonnellate di polvere da sparo, 1,3 milioni di proiettili e 600 mila involucri per contenerli «È un momento storico senza precedenti. Questa è la prima volta che utilizziamo il bilancio dell’UE per sostenere le capacità produttive dell’industria della difesa» è il commento trionfante del Commissario UE all’Industria, Thierry Breton. Un’altra dichiarazione, raccolta dal sito specializzato Eunews da parte di un funzionario di Bruxelles, rende al meglio la rilevanza della notizia: «Passeremo dalla modalità di pace alla modalità di guerra»

Una decisione storica che si rende sempre più necessaria, agli occhi del “blocco occidentale”, per sostenere l’esercito ucraino sfiancato dalla potenza di fuoco della Russia e che rappresenta il proseguimento concreto del programma “Asap(Act in support of ammunition production), lanciato a maggio dell’anno scorso per incrementare la produzione di munizioni. Con l’erogazione dei 500 milioni, il programma Asap entra in vigore con l’obiettivo di produrre oltre due milioni di proiettili nel 2026. I 31 progetti industriali per la difesa finanziati dall’UE coinvolgeranno Grecia, Francia, Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania, Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Ogni area di sostegno finanziario ha obiettivi precisi che riguardano la produzione di esplosivi, polvere da sparo, munizioni, bossoli, involucri, razzi e certificazione di collaudo. All’Italia sono stati affidati due progetti che prevedono la partecipazione di due aziende: la Simmend Difesa S.p.A., che coordinerà un progetto relativo alla produzione di polveri con un budget a disposizione di 41,3 milioni, e la Baschieri e Pellagri S.p.A. che dovrà coordinarne e svilupparne un altro, sempre per le polveri da mettere nei proiettili, con un budget di 3,7 milioni di euro. Con lo stanziamento di questi 500 milioni, ammonta complessivamente a due miliardi di euro il contributo Ue per la difesa, considerando i contributi del Fondo europeo per la difesa (1,2 miliardi) e il programma EDIRPA per gli appalti congiunti (300 milioni). Si tratta di programmi e di cifre comunque insufficienti ad eguagliare i ritmi di produzione russi: Mosca, infatti, produce attualmente il triplo delle munizioni di USA e UE messe insieme per l’Ucraina, come riferito recentemente dall’emittente statunitense CNN. Anche i fondi stanziati risultano scarsi per perseguire risultati determinanti, se paragonati non solo a quelli delle grandi potenze, ma anche ai singoli Stati membri dell’Unione Europea: per fare un confronto, le spese militari della Federazione russa per il 2024 ammonteranno a 118 miliardi di dollari, con un aumento del 68% rispetto all’anno precedente.

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Come le biblioteche possono avvicinare i bambini alla lettura. Il ruolo di questi istituti culturali sul territorio è fondamentale per il contrasto alla povertà educativa

Nonostante il calo nel resto della popolazione, la quota di lettori tra bambini e ragazzi tiene. Restano tuttavia ampi divari legati all’origine familiare e sociale dei minori

Alla fine dello scorso anno il rilascio dei nuovi dati sull’abitudine alla lettura ha indicato un calo dei lettori in Italia. La quota di popolazione che ha letto almeno un libro è infatti scesa al 39,3%, dal 40,8% del 2021. Nella serie storica di questo secolo, è la prima volta che si attesta sotto la soglia psicologica di 4 lettori ogni 10 persone dai 6 anni in su. Al contrario, la quota di lettori tra bambini e ragazzi sembra indicare un trend del tutto in controtendenza. Con un aumento di oltre 2 punti tra 6 e 14 anni e una sostanziale stabilità tra i 15-17enni. Negli anni scorsi, le rilevazioni di Istat hanno indicato come circa una famiglia su 10 non abbia libri in casa. L’abitudine alla lettura è perciò fortemente influenzata dall’ambiente familiare in cui cresce il bambino. In presenza di genitori che sono lettori, anche i figli leggono, nel 73,5% dei casi. Al contrario, nelle famiglie in cui né il padre né la madre leggono, la quota scende al 34,4%. Di fronte a simili disparità, il ruolo della comunità educante non potrebbe essere più centrale. Solo l’esistenza, in ciascun territorio, di servizi e alleanze educative può compensare i divari legati al contesto di origine. Nel mezzogiorno, meno biblioteche svolgono laboratori per scolaresche. Nell’indagine somministrata da Istat per il 2022, quasi la metà delle biblioteche (47%) ha dichiarato di aver svolto laboratori e attività didattiche specificamente dedicate ai gruppi scolastici. Questa percentuale, però, sfiora il 70% delle strutture in Trentino-Alto Adige (69,3%), mentre in altre 8 regioni supera comunque la media nazionale. Si tratta di Lombardia (60,5%), Sardegna (60,3%), Emilia-Romagna (60%), Veneto (57,6%), Friuli-Venezia Giulia (56,7%), Umbria (52,9%), Toscana (49,1%) e Valle d’Aosta (48,3%). Agli ultimi posti spiccano 3 regioni del mezzogiorno: Calabria (27,1%), Campania (25,2%) e Molise (20,7%). Nelle regioni del sud quindi, la quota di biblioteche che nel 2022 hanno attività laboratori e attività per le scolaresche è inferiore. Così come è più bassa la percentuale di strutture che hanno svolto presentazioni di libri rivolte ai gruppi scolastici: 18,5% nel sud continentale, contro una media nazionale del 21,5% (il dato invece è più elevato nelle isole 25,4%, soprattutto per il contributo della Sardegna).

consulta l’inchiesta su Openpolis

 

Clima, nel 2023 +1,45 °C oltre la media dei livelli preindustriali. A lanciare l’allarme è l’ultimo rapporto della World Meterological Organization

Gas serra, riscaldamento delle acque, fusione dei ghiacciai, temperatura delle acque superficiali. Per la Segretaria WMO Celeste Saulo “Il rapporto ha dato un nuovo significato inquietante al concetto di “fuori scala”

Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato al mondo da quando ci sono rilevazioni scientifiche, con una temperatura media di 1,45 gradi centigradi oltre la media dei livelli preindustriali. Lo rende noto il nuovo rapporto dell’Organizzazione meteorologica internazionale (Wmo), “State of the Global Climate 2023”, pubblicato alla vigilia della primavera e a pochi giorni dal World Meteorological Day del 23 marzo.  Presentando il rapporto, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha detto che “Le sirene di allarme risuonano su tutti i principali indicatori metereologici. E i cambiamenti stanno accelerando”.  La Segretaria generale della Wmo, Celeste Saulo, ha avvertito che “Non siamo mai stati così al limite inferiore di 1,5° C previsto dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. La comunità WMO sta lanciando l’allarme rosso. Il cambiamento climatico non riguarda solo le temperature. Quello a cui abbiamo assistito nel 2023, in particolare con le temperature senza precedenti dell’oceano, il ritiro dei ghiacciai e la perdita del ghiaccio marino antartico, è motivo di particolare preoccupazione. Per noi il rapporto ha dato un nuovo significato inquietante al concetto di “fuori scala”.

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