1. La testimonianza dell’attuale ministro dell’interno Matteo Piantedosi nel processo nei confronti del senatore Matteo Salvini, per il caso del divieto di sbarco imposto alla nave Open Arms nel mese di agosto del 2019, ha offerto elementi interessanti nella ricostruzione dei rapporti tra le diverse autorità civili e militari coinvolte nella vicenda per la quale l’ex ministro dell’interno, ed attuale vicepresidente del Consiglio, è stato rinviato a giudizio. Si tratterà adesso di inserire quanto dichiarato da Piantedosi nel quadro dei materiali probatori, anche documentali, già acquisiti nel procedimento, e verificare quindi la congruità delle linee interpretative alla base della decisione di Salvini di non assegnare un porto di sbarco (Place of safety-POS) alla nave della ONG spagnola che ne aveva fatto richiesta in diverse occasioni.

Il ministro Piantedosi non ha chiarito se le domande di asilo andavano presentate dopo lo sbarco, come ammesso nella udienza precedente da Salvini, né ha chiarito come si potesse ritenere che i paesi europei avrebbero potuto accettare la cd. “redistribuzione ex ante”, più volte richiamata dall’ex ministro dell’interno, considerando che alcuni paesi con i quali erano avviate le “interlocuzioni”, tramite la Commissione europea a Bruxelles, limitavano il loro possibile impegno alla redistribuzione di richiedenti asilo (come peraltro prevedeva il Regolamento Dublino allora vigente. Infatti Salvini era tornato a mani vuote dal Vertice dei ministri dell’interno di Helsinki il 18 luglio 2019, dunque alla vigilia del caso Open Arms, nel quale Francia e Germania respingevano la redistribuzione di tutti i migranti che non fossero richiedenti asilo e non consentivano che fosse messo in discussione il principio del “porto più vicino per lo sbarco”.

Occorre ricordare la mancata partecipazione del senatore Salvini alla riunione dei ministri dell’interno dell’Unione Europea, tenutasi a Parigi il 21 luglio 2019, pochi giorni prima del caso Open Arms. In quella sede il Presidente francese Macron aveva affermato: “Dobbiamo rispettare le regole umanitarie e del diritto marittimo internazionale. Quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare rifugio nel porto più vicino. È una necessità giuridica e pratica. Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”. Il Viminale nella fase di trattative a livello europeo non poteva certo ignorare queste posizioni o utilizzare il blocco della nave per ottenere una svolta politica che in realtà non si verificava neppure dopo il cd. Patto di Malta, tra soli cinque Stati membri, successivo alla vicenda Open Arms nel mese di agosto 2019, che non veniva ratificato dalle istituzioni europee e restava praticamente privo di effetti.

2. È emerso innanzitutto che la segnalazione del primo evento di soccorso, perchè di questo si trattava, e come tale veniva segnalato, proveniva da assetti dell’Operazione Eunavfor -Med Sophia, allora in corso nel Mediterraneo centrale. Malgrado le unità europee avessero allertato subito la guardia costiera libica si deve ritenere che la segnalazione fosse comunque regolata da quanto previsto dal Regolamento europeo Frontex n.656 del 2014, che vincola anche le unità militari coinvolte nelle operazioni Eunavfor Med. Questo Regolamento impone di valutare come distress la situazioni di qualunque imbarcazione sovraccarica di migranti, in alto mare, senza dotazioni di sicurezza, e senza adeguate riserve di acqua e carburante.

Una valutazione che non poteva essere ignorata o travisata dalle autorità italiane immediatamente contattate. il Piano SAR italiano del 2009, come il successivo piano adottato nel 2020, fa peraltro espresso riferimento alle metodologie tecnico-operative di ricerca e soccorso contenute nel manuale IAMSAR adottato dall’ Imo nel 1999 ed alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974( Convenzione SOLAS) che obbliga il“comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione” [Capitolo V, Regola 33(1)].

Si deve ricordare quanto richiama Irini Papanicolopulu, docente di diritto internazionale presso l’Università di Milano Bicocca, secondo cui “l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in mare in adempimento dell’obbligo internazionale assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare. ”di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Infatti, l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli stati (ai sensi dell’art.98, par. 1 CNUDM) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 SOLAS, nonché di numerose norme nazionali, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.)

3. Il ministro Piantedosi, all’epoca dei fatti capo di Gabinetto al Viminale, ha poi motivato il divieto di sbarco imposto con un decreto interministeriale firmato il primo agosto 2019 da Salvini, da Toninelli e dalla ministro della difesa Trenta, sulla base della competenza delle autorità libiche, e anche per la prognosi operata dalle autorità italiane che la nave avrebbe tentato comunque di sbarcare i naufraghi in Italia in modo da facilitare nella sostanza un evento di immigrazione illegale. Si è richiamata in proposito, anche se non poteva certo risultare una motivazione sufficente, la circostanza che il comandante della nave sarebbe stato inquisito da una procura italiana, come se tale precedente potesse comportare una qualificazione illecita dell’attività di salvataggio operata dalla nave nei primi giorni di agosto del 2019.

Una pubblicazione periodica dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea (FRA) censisce annualmente lo stato dei procedimenti penali ed amministrativi intentati a raffica contro le ONG, a partire dal 2017 (caso Iuventa). Con poche eccezioni di procedimenti ancora aperti, a Ragusa ed a Trapani, che presentano peculiarità evidenti, sono tutti procedimenti archiviati, ed in nessun caso di è arrivati ad una sentenza di condanna dei comandanti o dei capo-missione delle navi umanitarie.

4. Al centro delle dichiarazioni del ministro Piantedosi è stata la responsabilità dello Stato di bandiera della nave, nel caso Open Arms la Spagna, per la indicazione del porto di sbarco sicuro, Numerosi comunicati della Commissione europea hanno respinto da tempo la tesi italiana che giustificava, soltanto nei confronti delle ONG, la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro, da raggiungere nel tempo più breve ragionevolmente possibile, come dettato dalle Convenzioni internazionali, dagli emendamenti e dalle Linee guida approvate dall’IMO, in favore della competenza prevalente dello Stato di bandiera (Flag State).

E già nel 2020 la Raccomandazione della Commissione europea sui soccorsi in mare operati dalle ONG escludeva qualsiasi competenza primaria dello Stato di bandiera della nave soccorritrice, richiamando al contrario senza alcuna differenziazione per le navi umanitarie, le regole generalmente riconosciute sui soccorsi delle imbarcazioni in situazione di di distress (pericolo) in alto mare, L’assistenza richiesta dalle Convenzioni internazionali agli Stati di bandiera non può estendersi dunque fino alla indicazione del porto di sbarco. In passato la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, e la Germania avevano respinto le richieste italiane di assumere la responsabilità di coordinamento dei soccorsi per garantire lo sbarco a terra dei naufraghi in un porto indicato. dallo Stato di bandiera.

5. Secondo il ministro Piantedosi, all’epoca dei fatti la Libia non poteva garantire porti di sbarco sicuri. Affermazione che contrasta non poco con il riconoscimento di una zona SAR (di ricerca e salvataggio) autoproclamata dal governo di Tripoli a partire dal mese di giugno del 2018, nella quale le navi civili avrebbero dovuto operare attività SAR (Search and Rescue) sotto coordinamento di quella sedicente Guardia costiera libica che, secondo numerosi rapporti internazionali, corroborati da testimonianze di persone che ne sono state vittime dirette, non era (nel 2019, ma anche oggi) in grado di garantire i diritti umani delle persone soccorse. Tanto che, dopo la riconduzione a terra, i “naufraghi” finivano nella maggior parte dei casi in centri di detenzione, informali, ma anche governativi, nei quali venivano sottoposti ad abusi atroci ed a continue estorsioni. Su questo punto Piantedosi è stato categorico, affermando che gli abusi nei confronti dei migranti si sarebbero verificati soltanto nei centri informali gestiti dai trafficanti. Come se non fosse ampiamente provato che in Libia abusi ed estorsioni altrettanto gravi si verificavano (e si continuano a verificare) all’interno dei cd. “centri governativi”.

Nessuno ha ancora spiegato come mai uno dei più noti trafficanti libici, poi ai vertici della Guardia costiera, proprio in quegli anni abbia potuto avere accesso persino al Viminale. Si trattava di un esponente della sedicente Guardia costiera libica, che proveniva dalle milizie di Zawia che secondo quanto accertato dal GIP del Tribunale di Messina erano responsabili di gravissimi abusi a danno dei migranti intercettati in alto mare e riportati nella zona portuale della stessa città, dove peraltro esistono impianti petroliferi cogestiti dall’Eni, attorno ai quali, secondo altre inchieste prospera oltre al traffico di esseri umani, il contrabbando di petrolio.

La deposizione di Piantedosi è apparsa del tutto decontestualizzata rispetto all’epoca in cui si svolgevano i fatti del processo di Palermo, forse perchè il ministro era reduce da un incontro in Libia, nei giorni precedenti all’udienza, con l’attuale ministro dell’interno del governo di Tripoli, quel Trabelsi che tutti dovrebbero ricordare bene perchè ha un passato pesante, già accusato di violenze e torture ai danni dei migranti. Ancora oggi il ministro dell’interno del governo provvisorio di Tripoli non rappresenta l’intero paese, che rimane diviso tra diverse fazioni, come lo era già nel 2019, quando si sparava per le strade, ed infuriava la guerra tra le autorità di Tripoli e quelle di Bengasi. Non si vede davvero come in quel periodo si potesse garantire la sicurezza dei migranti intercettati in acque internazionali e riportati nei centri di detenzione libici, informali o “governativi” che fossero.

Nella richiesta di archiviazione di una delle tante indagini aperte nei confronti delle ONG  si legge che “In ogni caso è opportuno valutare se la Libia fosse, al momento dei fatti, in grado di ofhire un ”porto sicuro”, secondo i criteri interpretativi sopra richiamati. A tal fine, in data 20.06.2019 questo Ufficio richiedeva all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e, in particolare, all’Ufficio della Rappresentanza Regionale per il Sud Europa, se la Libia possa essere considerata un “Place of safety” in relazione alle fonti sovranazionali in materia, in precedenza citate.

L’UNCHR rispondeva in data 03.10.2019 nota prot. NV/29l2019) allegando un rapporto nel quale, dopo aver ripercorso i conflitti in corso in Libia nell’anno 2019, esaminava la situazione di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in quei territori, evidenziando come alcune migliaia di loro si trovano in condizione di detenzione arbitraria e sottoposti a violazioni dei loro diritti umani.