Riprendiamo l’articolo di Livio Pipino, già presidente di Magistratura democratica, pubblicato ieri sul sito dell’associazione ‘Volere la Luna’. Si tratta di un interessante contributo politico-giuridico sul tema della corruzione nella pubblica amministrazione e nella fattispecie sull’abolizione del reato dell’abuso d’ufficio. A distanza di tempo, così come fa osservare lo stesso Pepino,  torna di grande attualità la questione morale sollevata negli anni ’80 da Berlinguer, descritta in una memorabile intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari_

 

In un talk show televisivo dei giorni scorsi, un autorevole esponente della destra ha sostenuto che la corruzione, nel nostro Paese, è sostanzialmente scomparsa. C’era una volta, or non c’è più, come diceva una vecchia canzone. Sparita. Per decreto del principe. Così ho provato a guardarmi intorno.

Di tanto in tanto c’è qualche funzionario sorpreso con le mani nel sacco, qualche sindaco arrestato per malversazioni e ruberie, qualche ministro o presidente di regione lambito da accuse di corruzione. Ma nessuno sembra farci caso, il clamore dura pochi giorni e poi torna la “normalità”. Il Governo “del fare” non ha tempo per occuparsi di faccendieri e intermediari (spesso politici in congedo) che, non si sa bene a quale titolo, bazzicano ministeri e aziende di Stato interessandosi di grandi e piccole opere; a fianco dei suddetti faccendieri prospera la nuova classe dei lobbisti, sostenitori professionali di cause più o meno nobili senza che la legge ne regolamenti in alcun modo l’attività e i limiti nei rapporti con la politica e la pubblica amministrazione; il Parlamento abroga (o si appresta ad abrogare) lacci, lacciuoli e controlli per imprenditori “desiderosi solo di lavorare” e reati spia di malversazioni e ruberie (a cominciare dall’abuso d’ufficio); il vicepremier Salvini assicura che l’indagato principale di un procedimento per corruzione (pour cause suo “quasi parente”) è un “bravo ragazzo” ed evita di spiegare in Parlamento le curiose prassi in vigore in un’azienda controllata dal suo ministero; le autorità anticorruzione sono considerate della Cassandre (magari antigovernative) e i pubblici ministeri che si imbattono in mazzette sono, a loro volta, considerati politicizzati (e certamente antigovernativi); la maggioranza parlamentare e le sue ruote di scorta lavorano alacremente per silenziare la stampa e sottoporre le notizie delicate a controlli di veridicità (non si sa bene di chi…). Così anche l’opinione pubblica percepisce un contrarsi della corruzione (che pur resta al 41° posto nella graduatoria mondiale al riguardo).

L’ottimismo, dunque, dilaga. Lo scenario, peraltro, sembra assai simile quello descritto da Italo Calvino, alcuni anni prima dell’esplosione di Tangentopoli, innescata dall’arresto, a Milano, di Mario Chiesa, socialista brillante e potente, presidente del Pio Albergo Trivulzio e predestinato, senza quell’ increscioso incidente, alla carica di sindaco della sua città: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito. […] Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere» (Apologo sull’onestà nel paese dei corrottiLa Repubblica, 15 marzo 1980). Da anni, del resto, un ex magistrato certamente alieno da smanie forcaiole come Gherardo Colombo, già pubblico ministero del processo originato dall’arresto di Chiesa, sostiene che «Mani pulite è stata inutile, ma anche controproducente. Inutile perché non mi pare che abbia causato un contenimento della corruzione. Controproducente perché ha confermato il senso di impunità che già prima accompagnava questo tipo di reati» (Mani pulite. La vera storia, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 678-79). In effetti i segnali inquietanti non mancano.

Primo. A fronte delle avvisaglie di corruzione la regola è la rimozione, veicolata dalla solenne affermazione che “bisogna aspettare gli accertamenti della magistratura” (salvo parallelamente accusare i magistrati di parzialità ed esorbitanza). Siamo al ribaltamento delle regole fondamentali. Si rivendica l’autonomia della politica che – si dice – non può lasciarsi sostituire da pubblici ministeri e giudici, aggiungendo che una indagine o un processo non sono prove di colpevolezza e va, conseguentemente, bandito ogni automatismo tra sottoposizione a processo e decadenza o sospensione da funzioni pubbliche. Tutto vero e sacrosanto. Ma, per essere coerenti, occorrerebbe un diretto, forte protagonismo della politica a fronte di qualunque segnale (giudiziario o meno) che ne sfiori la credibilità. Invece è proprio questo che manca, sostituito da un improprio rinvio all’esito (inevitabilmente ritardato) dell’eventuale processo. Di nuovo tornano alla mente analisi (dimenticate) degli anni ‘80 come quella contenuta nella celebre intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari sulla questione morale che «non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano» (la Repubblica, 28 luglio 1981).

Secondo. Gli appalti pubblici sono, nel nostro Paese, un affare di circa 200 miliardi l’anno, a cui va aggiunta, di questi tempi, una quota considerevole del PNRR. Ebbene, per gestirlo, il Governo ha varato un nuovo codice degli appalti pubblici (decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36), fiore all’occhiello e vanto in perpetuo del ministro delle infrastrutture e dei lavori pubblici, che aumenta da 40mila a a 140-150mila euro la soglia al di sotto della quale lavori e commesse possono essere affidati senza gara, dimenticando che l’utilizzo abnorme dell’affidamento diretto, anche mediante un “frazionamento” artificioso degli appalti (strumentale a restare sotto-soglia), è uno dei più rilevanti veicoli di corruzione. E non basta. Il nuovo codice estende le procedure negoziate senza bando e senza concorrenza – mediante consultazione discrezionale di 5 o 10 imprese – per tutti gli appalti fino a 5,3 milioni di euro: «è facile profezia di sventura che in molti casi questo – come scrive Alberto Vannucci – valga a saldare, con la connivenza dei funzionari, la scientifica ripartizione dei contratti tra imprenditori collusi, selezionati sulla base della loro disponibilità a “coordinare” le rispettive offerte in modo da alternarsi nell’aggiudicazione, ovvero a ripartirsi i proventi attesi tramite l’assegnazione di subappalti». Parallelamente –come già accennato– si susseguono gli interventi legislativi tesi a depotenziare il controllo giudiziario in nome di un sedicente garantismo che gradua le regole in base al potere e al censo, così negando il fondamento stesso del garantismo, che sta nell’uguaglianza di trattamento.

Terzo. La retorica e il rilancio delle grandi opere tornano ad occupare la scena pubblica. E il sullodato ministro dei lavori pubblici percorre l’Italia da Nord a Sud promettendo lo scavo, dopo vent’anni di attesa, di un tunnel sotto le Alpi (per un treno ad alta capacità inutile fin dall’origine e oggi travolto dalla diminuzione dei traffici e dalle rinunce dei partner), di un ponte sullo stretto di Messina (riesumato senza ragione dall’immaginario berlusconiano dopo l’archiviazione per conclamata irrealizzabilità e lo spreco di centinaia di milioni per consulenze e progetti) e di una lunga scia di strade, viadotti e infrastrutture all’insegna del chi più ne ha più ne metta. Naturalmente sottraendo risorse al welfare e al risanamento delle molte infrastrutture fatiscenti e dimenticando che le grandi opere, in assenza di straordinari strumenti controllo, sono il maggior veicolo di corruzione e servono – come è stato acutamente rilevato – non al Paese ma solo a chi le progetta, costruisce e autorizza…

Semplici assonanze e preoccupazioni suggestive? Vedremo. Non amo fare il profeta di sventure ma forse sarebbe bene contenere l’ostentazione di ottimismo…

 Livio Pepino