Abbiamo incontrato la deputata dell’ARS, istituzione anche nella quale la Chinnici continua il lavoro  politico contro ogni marginalità sociale. Un’attività che la Nostra conduce da tempo – a partire dall’impegno civile profuso nel CIDI-Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti – e su cui ha caratterizzato il suo mandato di consigliera indipendente nel Consiglio Comunale di Palermo 

 

Il tuo impegno politico da sempre è volto a coniugare il mandato istituzionale – dapprima, come indipendente, nel Consiglio Comunale di Palermo ed oggi, nel PD, all’Assemblea Regionale Siciliana – con la presenza attenta e attiva nelle realtà dimenticate, nelle periferie più marginali, nei luoghi senza nome dove “dal letame nascono i fior”. Vuoi raccontarci come ci si costituisce tramite tra i bisogni delle persone e le istanze legislative?

Grazie per questa domanda bella e importante a cui do una risposta forse facile. Bisogna semplicemente stare e sostare, vivere, abitare, lavorare, non “tornare” nelle periferie, come si usa dire con paternalismo quasi coloniale. La città è essa stessa le sue periferie, e solo so-standoci e rimanendoci si ascolta la voce di chi è abituato a pensarsi senza voce e senza diritto di ascolto. A volte è faticoso ascoltare (di presenza, per telefono, in ogni modo utile) il lamento di chi soffre, perché assorbe infinite energie mentali ed emotive, ma sono allenata dagli anni dell’insegnamento nelle scuole medie, in quei quartieri dove ancora l’insegnante è un adulto di riferimento, anche per i genitori. La paura è quella di deludere le aspettative, ma se si coglie comunque l’impegno a risolvere i problemi si consolidano rapporti di fiducia forti e nascono amicizie sincere.

 

Quanta solitudine e quanta ostilità hai dovuto fronteggiare per restare fedele a te stessa e alle tue scelte antiautoritarie e nonviolente? E che cosa ti ha dato il coraggio di non arrenderti?

Nei cinque anni in Consiglio comunale ho sentito mille volte ripetere dai colleghi consiglieri la frase per cui per fare politica avrei dovuto avere “scagghiuna tanti” [denti affilati, ndr] e che “ero troppo perbene”, oppure la falsa profezia per cui mi sarei dovuta adeguare al contesto in cui vincono i più scaltri e “u cchiu pulitu avi a rugna”. Mi ha aiutato molto la comunanza di idee e valori con uno sparuto gruppo di colleghi, estranei a queste logiche, con cui abbiamo condiviso battaglie ideali e una visione altra di politica come servizio autentico. Alla Regione sto provando a fare la stessa cosa, perché io funziono bene in gruppo, se riesco a costruire una piccola comunità, ma è più difficile perché molti colleghi chiaramente non vivono a Palermo e scambiare idee e passione nelle chat non è la stessa cosa: la solitudine a volte si sente forte. Mi aiuta molto il contatto incessante con chi sta fuori dal palazzo e mi dà un credito di fiducia e stimoli costanti.

 

Un esempio della tua “buona battaglia”, come Paolo di Tarso definì la sua, è la presenza pervicace nel quartiere Ballarò, nido dello spaccio di crack, dove è nata la Casa di Giulio, con un immenso sforzo antagonista al controllo mafioso delle menti e delle energie dei giovani, prima ancora che al controllo del territorio. Puoi dirci della legge di iniziativa popolare promossa da Clelia Bartoli con l’Università e le associazioni? 

Il percorso che ci ha portato qualche settimana fa a ricevere, come intergruppo parlamentare, dalle mani del Vescovo Lorefice il Disegno di Legge contro le dipendenze e il crack è un esempio luminoso di come la società civile possa spingere fattivamente le istituzioni a occuparsi dei bisogni reali delle persone. Le professoresse Clelia Bartoli e Alessandra Sciurba hanno avviato un percorso davvero partecipato, sprigionando le energie delle studentesse e degli studenti di Giurisprudenza che hanno elaborato un ampio e completo DDL, in sinergia con attivisti sociali come Nino Rocca, neuropsichiatri dell’ASP e associazioni che da anni sono in prima linea in quartieri come Ballarò. Insieme a loro Francesco Zavatteri, il padre di Giulio, ucciso a soli 19 anni dal crack e dai delinquenti che ci lucrano, il 15 settembre dello scorso anno.

 

Essere donna in Sicilia: è stata un’inchiesta sociologica della compagna Gigliola Lo Cascio negli anni Settanta, ma è ancora una peculiarità da indagare, purtroppo. Che ne pensi?

Sindacati e associazioni ci rimandano continuamente un quadro ancora molto preoccupante della situazione delle donne siciliane: dopo il Covid è aumentata la dispersione scolastica delle studentesse e la disoccupazione femminile, nonché le difficoltà di reinserimento nei circuiti lavorativi, che lasciano alle donne spesso solo occupazioni saltuarie e precarie. A ciò si aggiunge una sottocultura patricarcale ancora imperante in vasti strati della società, come ha dimostrato il recente stupro del gruppo di giovanissimi di Palermo ai danni di una ragazza di 19 anni. Sarebbe indispensabile aggiornare la ricerca sociologica di Gigliola Lo Cascio, per supportare la politica a trovare soluzioni fattive, come fece lei stessa istituendo i primi consultori a Palermo, ai tempi della Primavera palermitana.

 

Quanto avverti e come gestisci la pervasività della mafia, oggi tanto più subliminale e subdola quanto più potente, interna ad un tessuto patriarcale che intride la nostra isola e non solo?

Non credo, e non sono in grado di dire, che la mafia oggi sia “più potente” rispetto a trent’anni fa. Certamente è ancora pervasiva e mantiene un controllo del territorio quasi capillare in moltissimi quartieri della città, come dimostrano le indagini delle forze dell’ordine, le retate e i conseguenti arresti. Mi fa ancora più paura la zona grigia, quella che veniva chiamata dei colletti bianchi, un misto di collusione e connivenza tra politica, mafia e pezzi corrotti dei nostri apparati amministrativi con interessi convergenti, che blocca lo sviluppo della nostra terra e la tiene sottomessa. Penso ai tanti Comuni ancora sciolti per mafia e commissariati, a cui fortunatamente si contrappongono esempi luminosi di sindaci, amministratrici e amministratori coraggiosi, soprattutto nei piccoli centri, che non esitano a mettere il Bene della propria comunità al di sopra anche della propria sicurezza personale. Allearsi con questi ultimi e portare avanti insieme in modo sistematico battaglie di civiltà, legalità e sviluppo è la strada maestra per il mio agire quotidiano.

 

Infine, quanto conta per te la scuola nel lavoro di educazione civile, e quindi il tuo coinvolgimento nel Cidi?

La Scuola per me è l’architrave di tutto. In modo sloganistico e semplicistico mi viene da dire che se avessimo nidi e scuole piene potremmo quasi svuotare le carceri. Il CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) è per me Politica nel senso più alto e profondo: io milito prima di ogni cosa nel Partito della Scuola, come amava dire di sè Tullio De Mauro. Ma non una scuola qualunque, bensì quella che si riconosce nell’art. 3 della Costituzione, che ritiene suo compito principale “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. A difesa di questa scuola di tutti e di ciascuno spendo la mia vita e il mio impegno da oltre 20 anni, nel Cidi di Palermo prima e ora come presidente nazionale. È per me l’onore più grande che poteva capitarmi nella vita, lo vivo con profonda commozione e impegno, cercando di fare il possibile, nel solco di una tradizione iniziata 50 anni fa da due donne straordinarie, Luciana Pecchioli e Bice Chiaromonte Foà. Il loro esempio, insieme a quello delle tante Maestre e Maestri che ho avuto la fortuna di incontrare nel Cidi, illumina ogni giorno i miei passi e rende lieve e gioiosa ogni fatica.