Berlusconi muore nel pieno declino della sua epopea che ha segnato l’Italia dagli anni 1980-2020 in un contesto di devastante deriva dell’economia, delle relazioni sociali, della cultura e della politica.

La lunga stagione berlusconiana, ha prodotto una guerra dei vent’anni che ha visto affiorare giustizialismi di opposte fazioni, è stata condotta a senso unico: dall’alto verso il basso, contro i movimenti sociali di opposizione, i migranti e i ceti sociali più deboli che affollano le carceri.

Le televisioni di Berlusconi furono in prima fila all’inizio di “mani pulite” nel sostegno ai giudici del pool; come non ricordare Paolo Brosio davanti al palazzo di giustizia di Milano, tiranneggiato da Emilio Fede.

Sarà solo dopo, quando da un lato le inchieste giudiziarie non colpivano più solamente il ceto politico e soprattutto dopo il rifiuto di Di Pietro a fare il ministro nel primo governo Berlusconi, che il Cavaliere divenne un “garantista”, anche se non riuscì mai a esprimere questo nobile sentimento nei confronti dei migranti, dei militanti dei vari movimenti sociali che hanno attraversato gli anni del berlusconismo, degli anarchici al 41 bis e cose simili. Un “garantismo” peloso, da colletti bianchi. Ex Cirielli, lodo Alfano, legittimo impedimento, fanno parte dell’arsenale legislativo eretto come uno scudo di classe da Berlusconi. L’esatto opposto di un garantismo giuridico uguale per tutti e per ciascuno.

Da tempo, però, sono convinto che uno degli effetti nefasti del “berlusconismo” sia stato anche quello di aver prodotto “l’antiberlusconismo” da “salotto” cioè una massa di soggetti che l’unico intendo era una lotta personale a Berlusconi senza analizzare quello che realmente accadeva nella società.

Per più di un decennio (1980 -1994) la sinistra era passata di sconfitta in sconfitta, le condizioni di vita dei lavoratori dipendenti erano peggiorate, chi lottava lo faceva in modo isolato e nella più completa solitudine, era cresciuta enormemente l’incertezza e l’insicurezza sociale, i partiti erano degenerati ed intenti ad occupare ogni spazio al solo fine di coltivare interessi privati a scapito di quelli pubblici, il PCI aveva abdicato da tempo alla propria funzione e si era sciolto per dare vita ad un partito identico agli altri. E ancora, c’erano tutte le avvisaglie di una scomposizione del paese fra zone ricche e zone povere, tipico prodotto della competizione assolutizzata dalla globalizzazione. Nelle zone ricche cresceva l’egoismo sociale, l’odio verso gli immigrati, e un patto corporativo fra lavoratori e imprenditori fondato sull’illusione che separandosi dal resto del paese si potesse meglio competere con le altre zone ricche del mondo e dell’Europa. Nelle zone povere cresceva il clientelismo e un blocco sociale includente la criminalità organizzata, oltre all’individualismo più sfrenato legato alla spartizione delle risorse pubbliche attraverso consorterie e cordate di ogni tipo.

Il famoso “pensiero unico” non era un decalogo, un dogma da imparare a memoria. Era niente altro che l’apparente oggettività della situazione. Del resto la caduta del muro di Berlino aveva convinto quasi tutti, tranne una minoranza abbastanza isolata, che il capitalismo era il migliore dei mondi possibili e che se c’erano problemi questi erano dovuti alla mancata “modernizzazione” del paese. E la “modernizzazione” non poteva che essere la rimozione dei “lacci e lacciuoli” che frenavano la capacità competitiva delle imprese e del paese. E non poteva che essere il passaggio dalla democrazia parlamentare della Costituzione, fondata sui partiti, alla democrazia maggioritaria, fondata sulla funzione del governo e sui leader. I partiti, già degenerati fino all’inverosimile e caduti definitivamente in disgrazia con tangentopoli, avevano già snaturato il sistema democratico, gestendo la cosa pubblica negli interessi delle imprese, delle finanziarie, delle società immobiliari e così via. Dovevano essere sostituiti da partiti di tipo nuovo. Leggeri e cioè privi di una ideologia capace di interpretare la realtà e di partorire un progetto complessivo per la società e per il paese. Possibilmente dotati di nomi e simboli “aideologici” e perfino “apolitici” o abbastanza generici da essere buoni per qualsiasi politica. Da quel momento la botanica, la fauna, il tifo calcistico e i nomi dei leader la faranno da padrone. Contenitori di interessi ed egoismi di ogni tipo, spesso in contraddizione fra loro, ma mediati dal miraggio del governo come unico fine e ragion d’essere del partito. Il maggioritario servì esattamente a coronare un progetto latente da sempre nella borghesia italiana. Eliminare le ragioni del conflitto di classe e sociale dalle istituzioni e trasformare la politica in un affare privato delle sue diverse fazioni, riducendo il popolo a spettatore e tifoso di uno dei suoi leader. Come negli USA.

Berlusconi approfittò banalmente della situazione che si era creata ed ebbe l’abilità di interpretarla con il senso comune diffuso. Ovviamente le sue tv furono decisive, e lo poterono essere grazie ad una effettiva anomalia italiana creata a suon di corruzione con il sistema del duopolio televisivo e con la riduzione del servizio pubblico a competitore del privato sul suo terreno. Ma era una anomalia ben precedente a tangentopoli. Fondata sull’ormai inarrestabile primazia dell’impresa e soprattutto dei settori speculativi del capitale, che a questo scopo avevano corrotto pesantemente i partiti.

Una cosa è proporsi di cambiare il modo di pensare della gente ed un’altra è dire alla gente quel che vuole sentirsi dire.

Senza scomodare Gramsci e la sua analisi sulla formazione dello stato italiano, nel paese dei furbi, dei raccomandati e degli evasori, nel paese della cultura mafiosa, della borghesia eversiva mischiata con l’antistatalismo di stampo cattolico, nel paese dell’ipocrisia fatta legge, la sconfitta della battaglia del movimento operaio, per rifondare lo stato su basi diverse, persa con la controffensiva capitalistica degli anni 70 e seguenti, non poteva avere che esiti disastrosi.

Nell’Italia degli anni 80 e 90, del “facciamo soldi con i soldi” e del “gli operai sono in via di estinzione”, del “privato è sempre meglio del pubblico”, dei “sacrifici” imposti sempre agli stessi con l’applauso degli ex comunisti e dei sindacati, del “padroni a casa nostra”, del “dobbiamo competere sempre di più e meglio” e così via, c’è da meravigliarsi se vinse le elezioni l’imprenditore “fattosi da sé”? Il “non politico di professione”? L’uomo che sapeva parlare di “sogni”? E che dirà sempre “fatemi lavorare” e ripeterà fino alla nausea la parola “comunisti” e “sinistra” per identificare ogni nefandezza?

Per quanta importanza si attribuisca alla potenza dei mass media, e io ne attribuisco molta, furono le mutazioni sociali e il senso comune affermatosi dentro di esse a permettere, favorire e amplificare il fenomeno Berlusconi. E a far assumere ai mass media un ruolo centrale nella politica italiana, sempre più spettacolarizzata. Credere il contrario fu invece molto di moda fra le persone di “sinistra”.

Per quelle che pensavano che bisognasse avere un paese “normale”, alle privatizzazioni, alle elezioni come mera scelta delle persone, alle guerre come “missioni di pace”, ai sacrifici dei lavoratori come “necessari”, alla precarietà come “flessibilità”, alle banche e finanziarie come motore dell’economia, alle imprese private come essenza dello sviluppo, al mercato come effettivo “regolatore” dell’economia ecc. era normale che fosse così. Berlusconi era solo una anomalia vergognosa e bastava rimuoverlo per far tornare tutto a posto. Tanto più pensavano questo tanto più sentivano di dover tifare contro Berlusconi e per quelli che si candidavano a governare nel nome di tutte quelle cose che credevano insieme a Berlusconi, ma in modo “normale”. Del resto se la globalizzazione era buona, le banche fattore di sviluppo, la produzione di beni materiali tendenzialmente da superare collocandola nei paesi poveri (per garantire anche a loro, poveretti, un po’ di sviluppo!), le guerre erano umanitarie, il privato sempre efficiente, e Berlusconi pensava e diceva esattamente le stesse cose, su cosa si doveva incentrare lo scontro e la polemica? Conflitto di interessi, procedimenti penali, demagogia e dulcis in fundo: impresentabilità. Cioè sempre e solo su cose secondarie e spesso vissute come innovazione effettiva e politica di tipo nuovo da parte della maggioranza degli elettori. Si è fatto a gara per ingraziarsi la Confindustria dichiarandosi veramente liberisti e criticando Berlusconi per non esserlo abbastanza. Se è speculato sui processi a Berlusconi e contemporaneamente si incensano personaggi come Mario Monti, anche sperando che l’avversario sia sconfitto per le vicende processuali e non perché si sono convinti i suoi elettori a cambiare idea.

La politica mutava attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata nelle procure, mentre chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male.

Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.

La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, sono arrivati a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale. Il risultato è stato il lungo ventennio Berlusconiano.

Trasformare le piazze in enormi banchi delle parti civili, dove le lotte sociali, sindacali e politiche sono state declinate con gli ultimi “ismi” in circolazione, non più quello del comunismo ma del populismo e del vittimismo, è stato il colpo di grazia finale a quel po’ di speranze nella trasformazione sociale che restavano.

Nel famoso film di Nanni Moretti “Il Caimano” il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. La lingua biforcuta e scaltra di Travaglio ha trasformato questa immagine in una forma della politica contemporanea, un fenomeno che non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica.

Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla e anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate. Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio giudiziario.

Morto Berlusconi, resterà ancora vivo l’antiberlusconismo giudiziario??

Italo Di Sabato