Nell’oltre un quarto secolo di conoscenza personale di Daniele Lugli la sua fama ha preceduto il nostro incontro reale. Nel mio lavoro di ricerca su Aldo Capitini avevo visto tante volte la storica foto del fondatore del Movimento Nonviolento seduto sul prato della campagna perugina, a margine del Seminario internazionale sulla nonviolenza del 1963, circondato da Danilo DolciPietro Pinna (figure che avrei incontrato anche personalmente) e da altri più giovani amici, che poi avrei scoperto chiamarsi Enzo BellettatoRiccardo TeneriniEugenia Bersotti e, appunto, un giovanissimo Daniele Lugli (nell’immagine il primo da sinistra). Di Daniele sentirò parlare durante la partecipazione al mio primo congresso del Movimento Nonviolento, a Fano nel 1997, durante il quale viene candidato da Alberto L’Abate (un altro indimenticato punto di riferimento della nonviolenza) alla Segreteria nazionale. Alla quale sarà eletto all’unanimità, ma… senza essere presente. E poiché, in quella occasione, sarò eletto anch’io nel Comitato di Coordinamento nazionale, da lì in avanti Daniele diventerà anche un mio punto di riferimento personale. Saggio, empatico, ironico, autorevole. E realizzerò solo allora che dietro alla barba già bianca si nasconde il sorriso dello stesso ragazzo di quella ed altre immagini iconiche con Aldo Capitini.

Daniele Lugli è una presenza attiva e propositiva di molte fasi della storia della nonviolenza italiana, dall’esperienza dei Gruppi di Azione Nonviolenta insieme a Pietro Pinna nella prima metà degli anni ‘60 per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, alla Marcia del 2000 da Perugia ad Assisi organizzata dal Movimento Nonviolento per ribadire il “Mai più eserciti e guerre” (dopo che le marce ritualizzate per la pace erano diventate passerella anche per i facitori di guerre, anziché di paci), dove intervenne ormai da Presidente del Movimento fondato da Capitini. Dall’attenzione maniacale e competente agli atti istituzionali del Movimento Nonviolento, sempre a cavallo tra attivismo politico ed associazione formale, al tenere viva la memoria storica – nazionale e ferrarese – sul blog personale e settimanale su Azionenonviolenta.it, alla formazione di diverse generazioni di volontari in servizio civile sui temi dell’obiezione di coscienza e della difesa nonviolenta della patria. Anche a Reggio Emilia, dove nel tempo lo avevo invitato più volte, aveva partecipato ad iniziative nonviolente, approfondito il pensiero di Aldo Capitini, presentato il suo poderoso lavoro sul ferrarese Silvano Balboni (Silvano Balboni era un dono, 2017), oltre che intervenire nel suo autorevole ruolo di Difensore civico della Regione Emilia Romagna.

La sua dipartita imprevista e inaspettata, avvenuta il 31 maggio scorso, lascia un vuoto incolmabile e il suo contributo nel lungo percorso sulla strada della nonviolenza italiana andrà approfondito con cura ed attenzione. Qui, intanto, metto a disposizione di tutti la postfazione che mi aveva regalato per l’Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini (2018), nella quale – come sempre in Daniele Lugli – le riflessioni più profonde non sono dissociabili dai passaggi biografici di storia personale e collettiva:

“Ho letto volentieri il saggio dell’amico Pasquale.

Mi ha ricordato le prime letture, tra ginnasio e liceo, di Aldo CapitiniElementi di un’esperienza religiosaVita religiosa, articoli su “Il Ponte”. Mi erano piaciuti e avevano accompagnato, assieme ad altre letture, il mio abbandono della fede e pratica cattolica. A quel punto gli scritti di Capitini, apostolo di una religione, senza libri sacri e leggende, mi interessavano di meno. Altri furono gli autori preferiti, in particolare l’Adorno di Minima moralia, splendidamente tradotto e introdotto da Renato Solmi, conosciuto anni dopo nel Movimento Nonviolento. Venne però, ero studente universitario, l’incontro diretto con Capitini e con i suoi amici più vicini, provocato dall’interesse della marcia Perugia Assisi del ’61. È stato nel ’62, nella sede del cor in via dei Filosofi a Perugia, mentre prendeva forma il Movimento Nonviolento, ai cui momenti costitutivi ed alle prime attività ho partecipato. Stimolo a leggere quanto potevo di Aldo è stato il seminario internazionale sulle tecniche della nonviolenza nel ’63. Altri momenti di incontro ci sono stati fino alla sua morte. Costanti i contatti, tenuti soprattutto attraverso Pietro Pinna, per le azioni volte al riconoscimento dell’obiezione di coscienza, per la diffusione di Azione nonviolenta e del pensiero da Capitini ispirato.

Trovo utile il lavoro di Pasquale Pugliese. Aiuta alla lettura di testi, scritti benissimo, ma nei quali si mescolano e saldano diverse ispirazioni, filosofiche, religiose, politiche, pedagogiche, poetiche… Non potrebbe essere diversamente, forse, per un libero religioso e indipendente di sinistra, quale si è proclamato ed è stato. Non solo si tratta di conciliare libertà e religione (compito non facile e attuale) ma di proporre la religione come strumento di ulteriore liberazione, accanto, e oltre, la liberazione politica ed economica. A sinistra, dalla parte dei lavoratori e di tutti gli oppressi, pronto perciò ad ogni necessaria collaborazione, ma capace di agire anche da solo, o in pochissimi, secondo la sua persuasione, che gli garantiva indipendenza nel giudizio e nell’azione. La sua qualità particolare non era sfuggita al tutto politico Pietro Nenni, che annota nel suo diario “È morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della non violenza era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia… Capitini era andato contro corrente all’epoca fascista e di nuovo nell’epoca postfascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello”.

Profeta, profetico, profezia ricorrono nel testo di Pugliese. Sono sicuramente appropriati. Capitini era uno studioso, un saggio interessato a conoscere la realtà, ma per superarla, per trasformarla. Il saggio, alla fine dei conti, ti indica come adattarti a ciò che non puoi mutare, per esempio che il pesce grande mangi il pesce piccolo. Ma al Capitini, profeta, la cosa non va giù: “Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto… non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano: una realtà fatta così non merita di durare”.

Per il superamento di questa realtà sono necessari strumenti inediti. Nel ’48, in un seminario in Francia condotto da Paul RicoeurSilvano Balboni porta la riflessione di Aldo Capitini, che non può partecipare. Ricoeur si chiede:

Se il profeta ha un compito storico e questo compito può inserirsi a metà fra l’inefficienza dello yogi e l’efficacia del commissario, se i non-violenti possono essere il nucleo profetico di movimenti propriamente politici, cioè basati su una tecnica della rivoluzione, della riforma, del potere.

Sono i temi di società uscite dalla guerra nella quale ancora agiscono spinte a mutamenti radicali. Profeta e proletario possono essere considerati i necessari protagonisti di una rivoluzione che non tradisca, nell’uso dei mezzi, premesse e scopi. La produzione di scritti di Capitini, d’occasione e di più profonda riflessione è intensa in un periodo che avverte come cruciale. Così sarà di nuovo negli anni Sessanta.

Anni Novanta, con Mario Miegge torno in treno da un convegno a Perugia su Capitini. Mario aveva fatto un intervento. Io ero andato per ascoltare e parlare con alcuni che avevano conosciuto Silvano Balboni: BinniCavicchiZanga… – stavo ultimando mie ricerche: il libro su Silvano, giovanissimo collaboratore di Aldo nel periodo antifascista e nell’immediato dopoguerra, l’ho poi scritto e pubblicato un paio d’anni fa – Mario mi chiede “Ma Capitini era profeta?”. Rispondo “Mi pare di sì, ma tu mi ridici che è il profeta” . Ascolto e mi dico che sì, Capitini era un profeta. Il discorso riprende qualche tempo dopo a casa di Mario a Ferrara. Mi dona una copia del suo libro appena uscito, Il sogno del re di Babilonia. Profezia e storia da Thomas Müntzer a Isaac Newton e vi annota:

A Daniele il quale, da Capitini e poi per conto suo, ha imparato che la “res publica” ha bisogno di un poco di profezia Mario.

Il sorriso di Mario, straordinario compagno, che alla fede valdese univa strenuo impegno nello studio, nell’insegnamento e nella società, mi ricorda il sorriso, più frequente, di Capitini. Lo ricordo con in mano La scienza nuova di Vico. Legge “Gli uomini prima sentono il necessario; – è la Cina! – dipoi badano all’utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano del piacere; quindi si dissolvono nel lusso; – la lettura è accompagnata da altri accostamenti di paesi che non ricordo – e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze”. Qui Aldo ride: “È l’America, è l’America!”. Gli occhi brillano dietro le spesse lenti. Miope ma profeta, lo dice Dolci, un profeta che non malediceva nessuno, a differenza dei suoi colleghi.”