La leggerezza di un racconto per bambini e bambine, ma che colpisce il cuore anche dei più grandi, per raccontare un tema grave e attuale. “Mariolino va per mare”, scritto a quattro mani da Manuela Barbaro e Mimmo Laghezza, è un libro necessario per affrontare la questione migratoria, acquisire consapevolezza e invocare un dibattito più umano e meno politicizzato.

C’era una volta una delle tante principesse portate dal mare, dalla pelle nera come l’ebano e il cuore dai mille colori dei tramonti africani. C’era il suo fedele cavaliere che a quel mare l’aveva rubata e c’era un nonno che di quel mare viveva, nelle mani e nell’anima, ogni giorno come se fosse il primo, ogni giorno come se fosse l’ultimo.

Il mare prende e il mare dà e su quel mare c’era una città piena di contraddizioni, con i suoi fumi color ruggine e le sue oasi naturalistiche dietro l’angolo, le sue isole piene di tesori e i suoi uccelli curiosi e ciarlieri. E c’era una quarta elementare: quarantaquattro occhi che tutto vedono, quarantaquattro orecchie che tutto ascoltano, ventidue bocche che a volte restano chiuse e a volte dicono troppo. Ventidue menti che corrono, inciampano, cadono e si rialzano con la genuinità dei loro nove anni. Il mare prende e il mare dà. Basta sapergli tendere la mano.

A tendere la mano e tutto sé stesso, nella parte iniziale del libro Mariolino va per mare – scritto da Manuela Barbaro e Mimmo Laghezza per la Multimage – la casa editrice dei diritti umani e inserito all’interno della collana: L’isola che c’è – è un ragazzino della città vecchia di Taranto che dal peschereccio di nonno Antonio ascolta un brusio e pensa si tratti del rumore dei vecchi motori. In realtà, sono le voci disperate di naufraghi il cui gommone si è afflosciato a poche miglia dalla costa tarantina.

Manuela, Mimmo, come è nata l’idea di questo racconto, purtroppo molto verosimile?

Aicha, la protagonista femminile del nostro libro, è stata una mia alunna appena arrivata in Veneto, dove ho insegnato per vent’anni. La sua storia, che io e Mimmo abbiamo romanzato, non si discosta molto dalla descrizione che abbiamo fatto.

Avete scritto “Mariolino va per mare” a quattro mani. Non è un’operazione semplice, soprattutto se si vuole garantire un’armonia nella scrittura e una scorrevolezza fondamentale per un libro che è letto da tutti, ma vuole dire qualcosa sulle migrazioni ai più giovani.

Abbiamo una sintonia totale. Ti diciamo solo che rileggendolo facciamo fatica – e spesso neanche ci riusciamo – a ricordare chi ha scritto cosa! Conosciamo perfettamente le caratteristiche l’uno dell’altra e capitava spesso che uno dei due dicesse: “Questa descrizione è cosa tua e animerai anche le pagine su cui sarà stampata!”.

Quello che potrà riportarci a vedere la luce saranno le azioni collettive dal basso: quelle che metteranno al centro della propria vita e della propria comunità l’essenza vitale del “noi”

Senza voler svelare la trama di questa bellissima favola moderna, mi limito a chiedervi del naufragio di quel gommone con il suo carico di esseri umani. Che messaggio avete pensato di mandare agli studenti che leggeranno il vostro racconto?

“Mariolino va per mare” è stato scritto nel 2020, in pieno lockdown per il Covid: l’unico periodo in cui anche i disperati in fuga da guerre e carestie annose non hanno potuto mettere a rischio la propria vita pur di giocarsi qualche possibilità di sopravvivere. Il salvataggio di tanti ragazzi, mamme e padri non avviene a opera di una motovedetta della Guardia Costiera o di una ONG, ma si verifica grazie allo slancio di povera gente, dei pescatori, che all’epoca avrebbero potuto essere denunciati per quell’atto di umanità.

“Atto di umanità” dite, ma non ritenete che la questione sia tutta politica?

Assolutamente no, per due ragioni in particolare: innanzitutto – e non facciamo qualunquismo – perché sulla questione migrazioni abbiamo constatato risposte simili da destra e da sinistra, sebbene riteniamo che definire il PD con Minniti ministro “forza di sinistra” sia una forzatura non da poco. Essere di sinistra, sinistra vera intendiamo, non è una collocazione astratta, ma vuol dire incarnare nel profondo i valori di uguaglianza sociale, avversione a qualsiasi forma di discriminazione e perseguimento di azioni di pace!

Non di certo fare accordi con la Libia per creare dei lager dentro cui imprigionare chi tenta di attraversare quel tratto di Mediterraneo! Se la società civile non si è mobilitata contro quest’atto di assoluta disumanità, evidentemente non è solo un problema politico ma sociale. È una fase buia quella che stiamo attraversando – e veniamo alla seconda ragione – e secondo noi si spiega con l’esaltazione dell’io, della leadership come forma di potere. Quello che potrà riportarci a vedere la luce saranno le azioni collettive dal basso: quelle che metteranno al centro della propria vita e della propria comunità l’essenza vitale del “noi”.

Dite “questione” e non “problema” migrazioni: perché non pensate sia un problema da risolvere?

Semplicemente perché migrare, muoversi da un posto all’altro, è nella natura dell’uomo dacché popoliamo questo mondo. I bisogni fisiologici – mangiare, bere, respirare – non sono visti come un problema e ora muoversi lo diventa per giustificare scelte assurde.

Aicha, la ragazzina senegalese salvata dall’affondamento del gommone su cui tentava di raggiungere l’Italia, vive nella città vecchia di Taranto. Perché avete pensato questa trama per il vostro racconto?

A chi non conosce la nostra città, è un invito a calarsi in questo micromondo, venendo a visitarla: ci sono indubbiamente difficoltà economiche e socio-culturali, ma è un esempio meraviglioso di umanità. Sull’Isola della città antica, chi ha un solo piatto di pasta ne porta metà ai dirimpettai se non hanno nulla da mangiare. Di storie così ne sentiamo tante e ci commuoviamo ogni volta: si riparta da lì, dal senso più profondo di umanità!

 

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