1. Forse oggi pochi ricordano cosa ha significato il “Processo di Khartoum” avviato dal governo Renzi nel 2014, dopo la chiusura dell’operazione Mare Nostrum, seguita alle stragi di Lampedusa del 3 ottobre e a sud di Malta dell’11 ottobre 2013 (la strage dei bambini). Nel corso del semestre di Presidenza dell’Unione Europea nel 2014 l’Italia lanciava il Processo di Khartoum che, nel solco del Processo di Rabat e degli Accordi di Cotonou, tendeva a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte ad un crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli, anche attraverso la collaborazione con l’agenzia europea FRONTEX, in modo da realizzare operazioni di respingimento alle frontiere esterne o di espulsione collettiva verso i paesi di origine. Successivamente, Renzi ed il governo italiano, con l’appoggio della Commissaria UE Mogherini, adottavano la nuova formula, ben poco comprensibile, del Migration Compact, definito come “Contribution to an EU strategy for external action on migration”.che veniva a costituire uno sviluppo concreto del Processo di Khartoum. Un atto politico che è rimasto al di fuori di una procedura legislativa, ma che ha segnato l’azione dell’Unione europea nei confronti dei paesi di origine o di transito dei migranti che, in assenza di canali legali di ingresso, tentavano comunque a raggiungere lo “Spazio Schengen”. Negli anni successivi i governi europei hanno fatto lavorare in modo febbrile le diplomazie ed i servizi, con una fitta rete di agenti di collegamento, e con corsi di formazione congiunta, per concludere nuovi accordi con i “paesi terzi sicuri”, che in Africa avrebbero dovuto garantire l’arresto o la riammissione dei migranti . Fondamentali sotto questi profili, le previsioni del Regolamento europeo Frontex n. 1896 del 2019.

Le misure previste dal Migration Compact ricalcavano il modello degli accordi che, dopo i Protocolli tecnico-operativi del 2007 (governo Prodi), l’Italia di Berlusconi e Maroni stipularono nel 2008 e nel 2009 con la Libia di Gheddafi, sul principio della “condizionalità migratoria” nei rapporti con i paesi terzi, che il governo Sarkozy aveva proposto nel 2008 all’Unione Europea. Si trattava in sostanza di garantire congrui finanziamenti e forniture tecniche e militari ai paesi di transito  per contrastare le partenze dei cd. “clandestini”, con la collaborazione attiva da parte delle polizie di questi paesi nelle operazioni di intercettazione in mare e di identificazione dei migranti giunti in Europa. Anche se poi nessuno garantiva il rispetto dei diritti umani delle persone respinte, espulse, oppure riprese in mare e ricondotte nei porti di partenza. Il ricorso agli stati terzi per bloccare le partenze dei migranti era avvertito da tempo come una esigenza prioritaria, soprattutto dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo aveva bocciato gli accordi bilaterali che prevedevano operazioni di respingimento diretto da parte delle unità militari dei paesi europei, come si era verificato nel caso dell’Italia con la sentenza di condanna sul caso Hirsi, pronunciata nel 2012 dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Successive conferme della illegalità dei respingimenti collettivi in Libia, in sentenze pronunciate da parte di tribunali italiani, restavano senza esito. Il Memorandum d’intesa stiulato nel 2017 da Gentiloni, con Minniti ministro dell’interno, finanziato sino allo scorso anno con voto trasversale da un’ampia maggioranza parlamentare, delegava alle motovedette donate ai libici il compito di eseguire i respingimenti collettivi in acque internazionali. Respingimenti, definiti intercettazioni, se non “soccorsi”, che, almeno fino al 2020, quando poi la Turchia assumeva il ruolo di principale attore militare in Tripolitania, restavano coordinati dalle autorità italiane, attraverso la Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC), come è stato sistematicamente accertato nei processi avviati contro le ONG e finiti quasi tutti con un provvedimento di archiviazione.

Rispetto alla Tunisia, alla Libia ed all’Egitto, prevaleva la delega europea ai paesi più esposti agli “sbarchi”, Italia e Malta, che a loro volta concludevano accordi bilaterali con autorità statali di dubbia legittimazione, dietro cui si celavano milizie ampiamente infiltrate dalle organizzazioni criminali che gestivano il traffico. Sono i documenti delle Nazioni Unite che confermano questo scellerato grado di coesione. Ormai si può dire davvero che i trafficanti libici vivono nei palazzi del potere. E dove non prevale la corruzione, prassi di polizia disumane attentano ai diritti ed alle vite di chi è costretto a fuggire da un paese come la Tunisia, nella quale si sta scatenando la caccia agli stranieri subsahariani, dopo la svolta autoritaria di Saied ed il sostegno che ha ricevuto dall’Italia e dall’Unione Europea. Sempre in nome della lotta all’immigrazione irregolare, naturalmente.

 

2. La politica di esternalizzazione dell’Unione Europea non è sostanzialmente cambiata e si ritrova nelle ultime versioni del Piano di azione europeo per il Mediterraneo centrale, adesso aggiornato nel novembre del 2022, nell’ambito del Patto europeo sulla migrazione e l’asilo che ricalca le stesse linee di quello del 2020. Misure che, a tre anni dalla loro presentazione, non si sono ancora trasformate in atti legislativi, vincolanti per tutti gli Stati membri. Continuano infatti ad emergere conflitti, in particolare tra il gruppo dei cosiddetti Med 5 (Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta) e gli altri membri dell’Unione, sul tema definito della “solidarietà”, che poi si dovrebbe tradurre nella (con)divisione della responsabilità nella attività di controllo delle frontiere marittime esterne e della gestione degli sbarchi fino alla redistribuzione in diversi paesi europei. Su questi punti il governo Meloni continua a vantare successi inesistenti,e la cronicizzazione del conflitto in Ucraina, come la devastante crisi economica che sta colpendo tutti gli Stati europei, non facilitano il raggiungimento di intese, che forse sarebbero state possibili in passato, se i paesi a guida sovranista non si fossero opposti a qualunque modifica del Regolamento Dublino III n.604 del 2013. Adesso, paradossalmente, l’Italia, che dovrebbe battersi per una maggiore solidarietà europea, si ritrova nel gruppo dei paesi di Visegrad, che alzano muri non solo alle frontiere esterne, ma anche all’interno dell’Unione Europea. Tutti gli sforzi della Commissione e del Consiglio dell’Unione Europea sembrano concentrarsi invece sulla implementazione di un“sistema comune per i rimpatri”, caratterizzato dal rafforzamento del ruolo di Frontex e da un maggior supporto agli accordi bilaterali conclusi con i paesi terzi. Anche se in questi paesi non sono garantiti i diritti umani, a partire dal divieto di trattamenti inumani e degradanti, fino al diritto alla vita, da salvaguardare anche con attività di ricerca e salvataggio in mare. Non si vuole prendere atto che ci troviamo comunque di fronte a migrazioni forzate, anche per cause ambientali o per la desertificazione economica del territorio. In Italia si continua a parlare di gestione dei flussi migratori, anche quando si tratta di adottare misure per contrastare le attività di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative come il Decreto legge n.1 del 2023. Misure che sono causa indiretta delle stragi per abbandono nelle acque internazionali, sebbene la Guardia costiera italiana moltiplichi gli sforzi per intervenire nelle acque territoriali e nella zona contigua, fino a 24 miglia dalla costa. Ma la intensità di questo impegno risulta regolarmente frustrato dalla ripartizione delle sone di ricerca e salvataggio (zone SAR) nel Mediterraneo centrale, e dalla pervicace politica di dissuasione adottata dal governo italiano, come dai precedenti governi, di non intervenire nella zona SAR (di ricerca e salvataggio!) “libica”, che è stata istituita da Tripoli dopo il Memorandum d’intesa del 2 febbraio del 2017 sottoscritto da Gentiloni. Mentre nella vastissima zona SAR maltese il rimpallo di competenze, e la politica delle autorità di La Valletta che si potrebbe definire di “abbandono in mare”, specialmente dopo gli accordi con i libici dopo il 2019, rimangono cause dirette che continuano a produrre naufragi. Per nascondere tutte queste responsabilità istituzionali non si trova altra soluzione che attribuire le colpe di questi naufragi agli scafisti, e si prevedono pene sempre più alte a loro carico, senza che questo inasprimento delle sanzioni riduca significativamente il numero dei barconi, o dei barchini, che vengono fatti partire verso le coste italiane. E si continuano a contare, ormai tutti i giorni, morti e dispersi.

Le risposte fornite dall’attuale governo italiano a grandi questioni che riguardano il futuro del mondo, e del nostro paese, sono deludenti, e sembrano risentire soltanto delle campagne di strumentalizzazione mediatica e di caccia ai consensi elettorali.. Si parlava da tempo di un Piano Marshall per l’Africa, oggi il governo Meloni propone un Piano Mattei, ma in realtà si vuole soltanto che i paesi africani si dimostrino più collaborativi nelle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera, di intercettazione in mare, di detenzione amministrativa sui loro territori e di riammissione con accompagnamento forzato. Gli accordi bilaterali sui quali si basano queste stesse procedure, definiti “Memorandum d’intesa (MOU)”, non possono però prevalere su norme cogenti aventi forza di legge, o sui diritti fondamentali riconosciuti dalle Convenzioni internazionali. Ed anche le norme interne che vengono periodicamente inasprite per creare nuovi irregolari e dissuadere così nuovi arrivi, non possono violare diritti coperti da garanzie della Costituzione o derivanti dagli obblighi internazionali a cui lo Stato si impegna con la sottoscrizione e la ratifica delle Convenzioni internazionali.

 

3. Il 2 agosto 2016 Italia e Sudan firmavano un Memorandum d’intesa (MoU) sul tema della migrazione, che prevedeva la collaborazione tra i due Paesi nella lotta al crimine, nella gestione degli flussi migratori e delle frontiere. Stando a quanto si precisava nel comunicato diffuso dall’Ambasciata italiana a Khartoum, l’accordo si iscriveva nel più ampio quadro di cooperazione tra Sudan e Unione Europea sui temi migratori, in particolare il Processo di Khartoum e il Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per la stabilità e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa, lanciato nel novembre 2015 al Summit de La Valletta.

Appariva subito evidente come gli accordi con un dittatore sanguinario come Bashir inquisito dalla Corte penale internazionale, non avessero alcuna legittimità a livello internazionale ed interno .Non mancavano i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, ma questo non impediva che una prima serie di espulsioni colletive fosse comunque eseguita. Ed ancora più gravi erano le conseguenze politiche, di cui oggi nessuno può perdere memoria.

Il Memorandum Italia-Sudan veniva sottoscritto a Roma dal capo della polizia italiana, Franco Gabrielli, e dal suo omologo sudanese, generale Hashim Osman Al Hussein, alla presenza di funzionari del ministero dell’Interno e del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. Già allora si instauravano rapporti privilegiati con i paramilitari del RSF, i “janjaweed”, le Forze di supporto rapido, che fino alla caduta di Bashir spalleggiavano il dittatore sudanese, rendendosi responsabili di crimini orrendi in Darfur ed in altre regioni del Sudan, proseguono fino ad oggi, come documenta da anni l’agenzia Africa ExPress, una delle pochissime voci giornalistiche che si avvale ancora di fonti dirette . Ed oggi, dall’Agenzia DIRE, si apprende che Ahmad Harun, l’ex capo delle milizie dei “janjaweed” accusato dalla Corte penale internazionale (Cpi) di crimini contro l’umanità nella regione sudanese del Darfur, ha comunicato di essere uscito dalla prigione di Khartoum dove era detenuto dal 2019. Sembra prossima anche la liberazione del vecchio dittatore Bashir. Ma l’impunità dei criminali che massacrano le popolazioni civili, o che sfruttano le immigrazioni irregolari, è un dato che accomuna molti paesi africani con i quali l’Italia e l’Unione Europea cercano di concludere accordi per chiudere tutte le vie di fuga. Alla fine, più che le vite delle persone, contano i rapporti economici e gli immensi guadagni che si possono ricavare dalla gestione delle materie prime di cui sono ricchi i paesi più poveri del mondo. Guadagni enormi che incidono, ancora oggi, come allora, anche in Sudan, sulla ragnatela dei rapporti politici e sugli equilibri militari.

I frutti della collaborazione tra Italia e Sudan sono stati molto modesti in termini di migranti ritenuti non meritevoli di protezione ed effettivamente espulsi, anche se in patente violazione delle più elementari garanzie riconosciute a tutte le persone dalle Convenzioni internazionali. Le conseguenze degli accordi bilaterali conclusi con il governo Prodi si avvertivano anche a Khartoum. Nel 2016 il Sudan espelleva centinaia di Eritrei che per anni vi avevano trovato rifugio, concludendo accordi con la dittatura eritrea. Si è visto come nel maggio del 2016 l’arresto di un famoso trafficante avvenuto a Khartoum, definito addirittura” Il Generale”, si sia rivelato una gigantesca bufala, rilanciata per anni dai media, quando si trattava di uno scambio di persona. Che comunque alla fine si doveva condannare per forza, per non perdere la faccia. Nell’estate del 2016, gruppi di migranti sudanesi rastrellati alla frontiera di Ventimiglia, e trasferiti nell’Hotspot di Taranto, venivano espulsi, imbarcati su un aereo e riportati a Khartoum. Un’operazione “esemplare”. Occorreva sgomberare la frontiera, da Ventimiglia a Chiasso, come si sarebbe tentato inutilmente di fare negli anni successivi, e poi dare effettività alle misure di espulsione con accompagnamento forzato, secondo quanto previsto dal “piano Gabrielli”, predisposto dall’allora capo della polizia italiana. Di fatto verso il Sudan si sono realizzate soltanto alcune decine di espulsioni collettive con la negazione di un diritto effettivo di difesa. Poi le denunce della società civile ed i ricorsi presentati dagli avvocati hanno interrotto questa catena di illegalità. Esattamente le stesse procedure di allontanamento forzato, che adesso ripropone il governo Meloni, dopo la cancellazione sostanziale della protezione speciale, che pure sarebbe stata coperta dal disposto costituzionale dell’art. 1. A questo scopo si è deciso l’ ennesimo ampliamento della lista dei paesi terzi sicuri, frutto di un Decreto del Ministero degli Affari esteri del 17 marzo scorso, fino a ricomprendervi Nigeria, Gambia, Costa d’Avorio. In questo modo le richieste di asilo, e di rinnovo dei permessi di soggiorno per protezione speciale di persone provenienti da questi paesi, potranno essere respinte. E pensare che si stava cercando di includere anche il Sudan tra i “paesi terzi sicuri”. Perché i rapporti tra le autorità di Roma e le milizie paramilitari erano consolidati da tempo. Adesso i janjaweed” delle RSF sono arrivati ad attribuirsi il merito della evacuazione degli italiani (che se ne sono voluti andare) da Khartoum.

 

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