1. Nei giorni in cui il Parlamento sta convertendo in legge il Decreto “Piantedosi” n.1 del 2023,la situazione a Lampedusa ritorna ad essere drammatica, oltre 3000 migranti provenienti dalla Libia e dalla Tunisia stipati in condizioni disumane in un centro che ne dovrebbe contenere al massimo 300, ed i libici riprendono a minacciare le navi civili di soccorso, mentre il ministro dell’interno del governo provvisorio di Tripoli incontra i vertici del Viminale per concordare ulteriori aiuti per contrastare soccorsi ormai qualificati come immigrazione illegale. Sono tutti tasselli di una politica che in nome del popolo italiano e della maggioranza schiacciante in Parlamento, frutto del successo elettorale delle destre, continua a violare sistematicamente il diritto internazionale e la normativa eurounitaria sui soccorsi in mare (Reg. UE n.656 del 2014). Per il ritiro del decreto legge n.1 del 2 febbraio scorso si erano pronunciati l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, il Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, numerosi parlamentari tedeschi. La Commissione Europea e prima ancora l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite con un documento del primo dicembre 2022 avevano sollecitato una regolamentazione delle attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale che realizzasse compiutamente i doveri di coordinamento e di intervento nelle attività SAR degli Stati costieri, senza ulteriori ostacoli nei confronti delle navi civili delle Organizzazioni non governative.

Il governo maltese conferma intanto la sua linea di non intervento ed addirittura arriva al punto di commettere una evidente omissione di soccorso, ordinando ad una nave commerciale in navigazione in acque internazionali, nella zona SAR di competenza maltese, di non procedere ad un soccorso che sarebbe stato imposto dalle Convenzioni internazionali. Malta non ha ancora ratificato del resto l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo del 2004 che impone allo Stato titolare della zona SAR di concedere un porto di sbarco alle persone soccorse in quell’area, quale che sia la nave, militare o civile che opera i salvataggi. E’ quindi inutile che il governo italiano continui a tirare in ballo la competenza di Malta per la indicazione di un porto di sbarco sicuro, soprattutto dopo che il Tribunale di Roma ha riconosciuto la responsabilità delle principali autorità marittime italiane, nel caso Libra, per il mancato coordinamento tra queste autorità e quelle maltesi, che produsse poi ritardi fatali nei soccorsi e centinaia di vittime. Tutto scritto nero su bianco in una sentenza che pur dichiarando la perscrizione dei reati, accerta responsabilità non si può continuare a nascondere.

Vediamo anche che il governo italiano sta facendo passare a colpi di fiducia, come se non bastasse la larga maggioranza di cui dispone, con un decreto legge (n. 1 del 2023) sulla “gestione dei flussi migratori”, misure che tendono soltanto ad allontanare le ONG dalla zona dei soccorsi in acque internazionali, quella nella quale più frequentemente si verificano i naufragi, sulle rotte dalla Libia e dalla Tunisia verso la Sicilia, sulle quali si vuole lasciare spazio libero alle incursioni violente della sedicente Guardia costiera “libica”. Anche se tutti i politici di governo sanno, o dovrebbero sapere, quale è la sorte dei migranti riportati in Libia, decine di migliaia ogni anno, la maggior parte dei quali non finisce neppure nei centri lager disseminati sul territorio ma viene fatta sparire nel nulla dello sfruttamento schiavistico e degli abusi fisici, nelle mani delle milizie che ne fanno commercio, o sotto i comandi di padroni libici. Ma per il governo italiano tutto questo non rileva e anzi si nasconde la realtà della Libia, ancora divisa e controllata da milizie che non si riconoscono in un unico governo, e priva di una unica centrale di coordinamento dei soccorsi in mare (MRCC).Che sarebbe imposta dalle Convenzioni internazionali per il riconoscimento di una zona Sar di competenza di uno Stato costiero.

 

2.La realtà dei fatti è più forte della propaganda di governo, e questo spiega anche i silenzi del governo e dei media conniventi, di fronte a situazioni esplosive come il sovraffollamento del centro Hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa,o come gli attacchi e le minacce che i guardiacoste libici rivolgono alle poche navi delle ONG che ancora riescono ad operare attività di soccorso in acque internazionali. Evidentemente non sono bastate le sonore sconfitte subite dal governo Meloni sugli “sbarchi selettivi” che si volevano imporre a Catania all’inizio di novembre dello scorso anno, o sulla competenza dello stato di bandiera nella ricezione delle domande di asilo, tesi cara alla difesa del ministro Salvini nelprocesso Open Arms a Palermo. Ma completamente disintegrata dalla ferma posizione assunta congiuntamente dalla Commissione europea e dai principali Stati dell’Unione che hanno anche respinto il ricatto italiano di trattare sulla ricollocazione dei naufraghi prima che fosse autorizzato lo sbarco a terra in un porto sicuro. Come prevede peraltro l’articolo 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.296/98 (e succ. aggiornament)i.

La “guerra” condotta dal governo contro i soccorsi umanitari, ed il ritiro dei mezzi militari italiani e maltesi dalle acque a sud di Lampedusa, continuano a produrre vittime, e costituiscono la principale causa dell’ammasso di corpi, ristretti al di fuori di ogni previsione di legge, all’interno del Centro Hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Una situazione che andrebbe denunciata ancora una volta alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che già nel 2014 ha condannato l’Italia per gli abusi commessi proprio in quel centro ai danni di alcuni cittadini tunisini. Ma anche una situazione sulla quale starebbe indagando la Procura di Agrigento, soprattutto dopo la morte di una donna, e non è la pima vittima all’interno del centro, riportata nell’Hotspot due giorni fa dalla Guardia medica dell’isola, dopo una sommaria visita, richiesta per i malori che lamentava. In ogni caso, le responsabilità della situazione nel centro di Contrada Imbriacola non si possono scaricare soltanto sull’ente gestore, come sta tentando di fare la Prefettura di Agrigento, ma risalgono direttamente alle scelte del ministero dell’interno.

Se le navi delle Organizzazioni non governative fossero state ancora presenti in acque internazionali, in numero pari agli sforzi fatti da tanti cittadini solidali che si sono attivati per finanziarle, senza trasferimenti dilatori per centinaia di miglia, verso destinazioni di sbarco sempre più lontane, e se i mezzi della Guardia costiera, piuttosto che tentare inutilmente di effettuare trasferimenti da Lampedusa verso altri porti siciliani, fossero state stabilmente impegnate in acque internazionali, per soccorsi immediati, la situazione nel centro dell’isola non sarebbe degenerata al punto di infliggere trattamenti inumani e degradanti alle persone, molti i minori, trattenuti illegalmente all’interno della struttura. Infatti come avveniva dal 2014 (Operazione Mare Nostrum), fino al Memorandum d’intesa Gentiloni (2 febbraio 2017) ed al codice di condotta Minnti (agosto 2017), la presenza di 10 – 15 assetti navali di soccorso, militari e civili, nelle acque del Canale di Sicilia, permetteva alla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma di distribuire gli sbarchi in tutta sicurezza e con la massima tempestività, nei porti di Trapani, di Porto Empedocle, di Pozzallo, di Augusta (Siracusa), di Catania, di Messina, di Palermo, se non nei porti calabresi. E da questi porti bastavano gli autobus per ritrasferire i naufraghi verso centri di accoglienza in tutta l’Italia. Ci sono i rapporti della Guardia costiera italiana degli anni dal 2014 fino al 2017, che lo confermano e dimostrano ancora oggi che le crisi esplosive di Lampedusa, oggi, come nel 2011, ai tempi di Alfano, sono frutto di scelte politiche errate e non di emergenze prodotte da “flussi migratori” imprevedibili. Negli ultimi anni tutti i dati sui soccorsi in mare sono stati silenziati persino nelle comunicazioni pubbliche e nei rapporti annuali diffusi dalla Guardia costiera.

 

3. Con la definitiva conversione del Decreto legge n.1 del 2023questa situazione si potrà aggravare ulteriormente, perchè il potere discrezionale del ministro dell’interno di assegnare porti di destinazione sempre più lontani e di sanzionare, tramite lalonga manus dei prefetti, qualunque soccorso che implichi una deviazione dalla rotta assegnata a discrezione del Viminale dopo il primo salvataggio in acque internazionali, produrrà l’effetto di un ulteriore allontanamento dei mezzi di soccorso dal Mediterraneo centrale, dove i libici potranno spadroneggiare, con il supporto delle ultime unità navali donate dal governo di Roma. Sempre che non prevalgano ancora una volta le organizzazioni criminali ben collegate con il governo di Tripoli, come nel caso delle milizie di Zawia e di Sabratha, che sono organiche a quello stesso governo che invia in missione a Roma un ministro dell’interno di dubbia affidabilità. Si sono visti del resto, sul numero delle persone comunque fatte partrire dalla Libia, con l’evidente assenso di chi controlla i punti di partenza, quali sono stati gli esiti fallimentari del vertice dei responsabili italiani e libici della sicurezza, al più alto livello, che si è tenuto a Tripoli il 28 dicembre scorso, proprio lo stesso giorno in cui il governo varava il Decreto legge poi pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 gennaio di quest’anno.

Sarebbe bene ricordare che la previsione della sovranità popolare contenuta nell’art.1 della Costituzione, contiene limiti ben precisi per il suo esercizio, e che per effetto dell’art.117 della stessa Costituzione il legislatore deve rispettare il sistema gerarchico delle fonti che stabilisce la prevalenza del diritto internazionale e della normativa europea cogente, come il Regolamento n.656 del 2014, su tutte le norme di una legge nazionale, come il Decreto legge n.1 del 2023, in corso di approvazione in Parlamento.

Non si può quindi continuare ad affermare, come sta facendo anche il ministro Salvini per difendersi dalle accuse nel processo Open Arms a Palermo, che la volontà popolare e la maggioranza in Parlamento, e dunque divieti di sbarco o di soccorso imposti in base a leggi nazionali, consentono di scavalcare le previsioni che disciplinano le attività di ricerca e salvataggio in base alle Convenzioni internazionali, Tra le quali, oltre alle Convenzioni di diritto del mare (UNCLOS, SAR, SOLAS), va ricordata la Convenzione di Ginevra del 1951 che garantisce a tutte le persone, comunque arrivino, il diritto di chiedere asilo in frontiera e vieta i respingimenti (art.33) quando possono mettere a rischio la vita o la libertà delle persone. Principi questi che sono stati ribaditi anche dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete (Cassazione n.6626 del 16 febraio 2020), ma che oggi si tende a dimenticare, quando si approvano i decreti legge proposti dal governo.

Il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente in fase di conversione, ma già ostacolo per i soccorsi in mare pone questioni da affrontare con il criterio dell’ordine gerarchico delle fonti normative, imposto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, e ribadito dalla Corte di Cassazione, dunque tenendo conto delle prescrizioni vincolanti delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei.

Una di queste questioni, che viene sollevata per criminalizzare le operazioni di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative, riguarda la suddivisione del Mediterraneo centrale in zone SAR, zone che non segnano un limite alla giurisdizione degli Stati, ma prefigurano semplicemente delle competenze e delle responsabilità, attribuite alle autorità statali, in Italia, secondo la vigente legislazione ed il Piano Sar nazionale del 2020, al Ministero dell’interno, al Mnistero delle infrastrutture, al Ministero della difesa, ed a livello operativo, alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC) ed al Coordinamento della Marina militare (CINCNAV). In base alle Convenzioni internazionali (UNCLOS, SAR, SOLAS) al di là della distinzione delle zone SAR, tutti gli Stati costieri comunque informati di un evento di soccorso hanno l’obbligo di coordinare gli interventi e di attivarsi tempestivamente, anche al di fuori della propria area di responsabilità, se lo Stato che risulterebbe competente in base ai registri IMO (Organizzazione marittima internazionale dell’ONU) non può o non vuole intervenire direttamente con propri mezzi. Il fine superiore da salvaguardare è la protezione della vita umana in mare, e anche l’accesso ad una equa procedura di asilo, che rientra tra i diritti fondamentali della persona, in base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il principio di non respingimento verso paesi nei quali si potrebbero subire trattamenti disumani o degradanti.

Qualunque disposizione di legge, come qualunque provvedimento amministrativo che vada contro questi principi può essere impugnato davanti ai giudici nazionali ed alle corti internazionali. Se il legislatore italiano mantiene una formulazione della norma che fa riferimento anche indiretto (con l’uso del termine “aree di competenza”) ad accordi con paesi terzi o a ripartizioni delle zone SAR(ricerca e soccorso) che comportano l’omissione di interventi di salvataggio, o la collaborazione con autorità militari che non rispettano i diritti umani, come si verifica da anni da parte delle autorità italiane, nei rapporti con il governo provvisorio di Tripoli, la legge può essere disapplicata in nome delle clausole generali di forza maggiore o di stato di necessità.

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