Per le foto da sempre uso preferibilmente obiettivi “corti”. Robert Capa diceva: “Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”, sono convinto che valga anche per la scrittura d’informazione.

Da anni ormai mi occupo di conflittualità sociale, non è stata una scelta, l’ho fatto e basta. Anni di suole sulla strada.

Non è stato facile, negli ambienti della politica dal basso l’informazione è vista con sospetto e non è un caso. Ho tutt’ora difficoltà, al punto di aver rinunciato, in determinati ambienti dell’area anarchica più rigidi, demagogici e, va detto, contraddittori. La concezione libertaria mal si coniuga con la negazione della libertà di stampa.

Le FFOO spesso hanno tentato di assimilarmi ai manifestanti: “Ma qui davanti vedo sempre solo lei”, “L’hanno chiamata per nome”, “Lei per me è un manifestante”, ignorando che un giornalista ha, per definizione, delle fonti.

Vengo da alcuni definito “giornalista militante”, definizione che non mi piace e che rifiuto, come non amo il ruolo del mediattivista, preferisco essere libero, anche da etichette.

In questi anni ho osservato, ascoltato, conosciuto persone. Ciò che mi colpisce di taluni colleghi è la distanza: foto da distante; articoli privi di conoscenza del contesto, dei meccanismi con i quali vengono portate avanti le lotte dal basso. Di fatto si tengono lontani, come se avessero paura o non volessero “mischiarsi”, mi chiedo come su temi come questi sia possibile fare informazione “da lontano”.

Rifiuto e mi rifiuto di usare etichette come “radicale”, “antagonista”, “autonomia”. Ritengo che il termine migliore per definire i fenomeni di protesta sociale sia “conflittualità”, la conflittualità si determina laddove non ci sono risposte alle istanze.

Conflittuale è sinonimo di violento? No, la violenza scaturisce dalla rabbia, nella stragrande maggioranza dei casi provocata dalla repressione. Lo Stato si trova sempre di fronte a due macro scelte: dare risposte o reprimere una protesta che inevitabilmente diventa sempre più aspra. La conflittualità sociale è una delle cose meno tollerate dal potere, che come come la storia c’insegna scatena tutte le proprie armi, le armi dello Stato, per reprimerla.

Da nonviolento mi ritrovo spesso di fronte a questa contraddizione: il comprendere le ragioni della violenza, pur nella consapevolezza che una persona nonviolenta incanala la rabbia in modo diverso e nella consapevolezza del fatto che da parte mia imporre la nonviolenza sarebbe di per sé un atto di violenza. Ma nell’universo regna l’entropia, l’entropia del pensiero è rappresentata dalle contraddizioni, intrinseche nella complessità.

Il disagio delle fasce sociali meno abbienti è letteralmente deflagrato con le politiche di Monti nel 2012, nelle rilevazioni ufficiali vediamo anno dopo anno un continuo aumento delle famiglie in difficoltà. La base sociale risponde alla mancanza di welfare come ha sempre fatto, creando reti di solidarietà, percependo il potere come un’entità estranea quando non dannosa. L’astensione elettorale parla da sé.

Questa è, in parole estremamente semplificate, la situazione che stiamo vivendo. Una mancanza di risposte ai bisogni, un progressivo allargamento delle fasce disagiate e una repressione della protesta che da Genova 2001 si è fatta più sofisticata e viene portata avanti a livello giudiziario.

Nelle lotte sociali ricorre con sempre maggior frequenza la parola “Resistenza”, anche questo un segnale che non si può sottovalutare. Come non si può sottovalutare che, qualora si continui a non dare risposte strutturali, l’allargarsi della fascia di disagio sta già cambiando e cambierà sempre di più i rapporti di forza.

Riconosciamo la presa della Bastiglia come l’inizio delle Democrazie, celebriamo (fin’ora…) il 25 aprile come il giorno della Liberazione dall’oppressione fascista. La domanda che mi pongo è: come ha descritto il potere, prima della caduta, quei rivoluzionari?

Mi sono trovato a raccontare quindi la conflittualità sociale dal mio punto di osservazione, cercando di capire, dando voce non “filtrata” a coloro che stanno portando avanti lotte conflittuali, se non altro per onestà d’informazione. Avendo anche il coraggio di affrontare un argomento reso così divisivo, tentando di spiegarne le ragioni.

Il concetto di solidarietà è, di fatto, intrinseco alla conflittualità sociale, chi ha il coraggio di osservare con occhi privi di pregiudizio non può negarlo. Comprendere questo aspetto, al di là delle convinzioni personali, cambia, anzi ribalta, la prospettiva. L’immagine disumanizzante spesso diffusa viene a cadere, la natura dei dubbi e delle domande cambia.

Mi muovo principalmente nella Città Metropolitana di Torino, che comprende la Valsusa, un luogo che, con un movimento estremamente diversificato e multiforme in sé stesso, da più di trent’anni porta avanti la lotta NoTav.

In particolare in quell’ambito i concetti di solidarietà, di dimensione collettiva, li puoi letteralmente toccare con mano, respirare, anche se non ne fai parte: è sufficiente una giornata, una sola, per rendersene conto. Questo, per onestà d’informazione, va detto.

Ancora una volta do quindi voce non filtrata alla conflittualità sociale pubblicando questo video: