Essere informati è un diritto e un atto di resistenza e ci dà la possibilità di scegliere da che parte vogliamo stare e soprattutto con chi.

Davide Dormino

Dopo oltre dieci anni va avanti la vicenda giudiziaria che colpisce il giornalista Julian Assange fondatore di Wikileaks, imprigionato in un carcere di massima sicurezza senza aver avuto un processo per  aver diffuso documenti secretati dagli Usa che ci hanno permesso di venire a conoscenza di gravissimi crimini di guerra e violazioni dei diritti umani in Iraq, in Afghanistan a Guantanamo e non solo. Ora la sua condizione volge al peggio per le sue precarie condizioni di salute e per il fatto che se estradato negli Usa rischia 175 anni di carcere. Ci si aspetterebbe che tutto il mondo stesse con il fiato sospeso in attesa del risultato del ricorso all’Alto Tribunale del Regno Unito intrapreso dai suoi legali, eppure non è così. La vicenda di Julian Assange, pur riguardandoci tutti, perché chiama in causa il valore fondamentale della libertà di stampa e di espressione, contemplato anche dall’Articolo 21 della nostra Costituzione, anziché suscitare scandalo e scalpore sta lasciando molte persone indifferenti. Ma non tutti, vista la folta partecipazione alla 24 ore non stop free Assange organizzata da Pressenza, Left, Free Assange Italia e Amnesty insieme a molti altri, a cui ha partecipato l’artista Davide Dormino, che ha realizzato una importante opera pubblica: Anything to Say?, che sta facendo il giro del mondo anche se forse proprio nel nostro Paese è ancora poco conosciuta.

Buonasera Davide, grazie per avermi accolto nel suo studio. Per cominciare a parlare del suo lavoro, le vorrei chiedere cosa unisce arte e politica.

Credo che ogni scelta che facciamo nella vita sia politica. Quindi tutto può assumere una connotazione politica. L’arte non può scappare da questa scelta. Le pratiche artistiche ci danno la possibilità di entrare in contatto con noi stessi, di comprendere le nostre esigenze, mostrandoci anche le contraddizioni del mondo in cui viviamo. Ritengo che l’Arte, nell’accezione più ampia del termine, sia tale quando ci fa interrogare sulla nostra esistenza, mostrandoci una nuova direzione possibile, arrivando a volte dove la politica fallisce. Di certo l’arte non salverà il mondo, ma lo sguardo di chi lo guarda forse sì.

Quindi, secondo lei, che ruolo ha l’artista oggi?

A mio parere gli artisti, attraverso il loro immaginario, hanno il dovere di raccontare lo spirito del tempo e renderlo visibile al mondo. Indagando anche quei fenomeni che, senza la ricerca artistica, rischierebbero di rimanere celati.

Com’è nato il suo rapporto con l’arte?

Essere un artista per me è un’attitudine naturale. Ho semplicemente ascoltato il mio corpo, assecondando un’esigenza interiore che mi ha portato alla scultura, una pratica quasi anacronistica oggi. La scultura nasce per stare fuori e in ogni mio lavoro ho sempre ricercato un’idea di monumentalità. Da qui deriva il mio interesse profondo per l’arte pubblica e la scultura ambientale, che ha la possibilità di arrivare a un ampio numero di persone e relazionarsi con i luoghi. Il fatto che io sia un artista indipendente, da una parte complica le cose, dall’altra mi rende libero di scegliere che tipo di artista voglio essere; e questa, nonostante io mi possa definire artista ormai da parecchi anni, continua ad essere la domanda con cui mi sveglio ogni mattina.

Nello specifico, com’è nata Anything to Say?

Era il 2013, parlavo con un amico, scrittore e giornalista americano, Charles Glass, delle vicende di WikiLeaks. Dei rischi che corrono i giornalisti che affrontano argomenti scomodi. Poi finimmo inevitabilmente col parlare di libertà di pensiero e di espressione.

Un tema, come hai detto prima, che ci riguarda tutti. Iniziai a chiedermi perché questo argomento così importante a livello universale fosse ignorato dalla maggior parte delle persone. Erano in gioco le nostre libertà, perché se nessuno può “controllare” i controllori, allora che democrazia è? Il giornalismo è il termometro della democrazia.

Ero stato profondamente colpito dalla storia di WikiLeaks, di Julian As-sange, suo fondatore, di Edward Snowden e Chelsea Manning, disposti a pagare un prezzo altissimo per aver rivelato al mondo delle verità nascoste. Quindi ho sentito l’esigenza di celebrare il loro coraggio, cimentandomi nella realizzazione di un’opera che facesse luce su questa vicenda e, in qualche modo, potesse risvegliare la coscienza di chi non sa o non ha il coraggio di sapere.

Ci dica di più…

L’idea è nata come una folgorazione, un fulmine che mi ha colpito mentre ero in moto sulla tangenziale est di Roma. Accostai nella corsia di emergenza e disegnai su un foglietto tre figure in piedi su altrettante sedie. Ritrovai il foglietto in tasca la sera ed inizia ad interrogarmi. Perché li avevo rappresentati in piedi sulla sedia? Mi risposi che storicamente, le persone che spostano dei flussi di pensiero non si siedono mai. Al contrario: stanno in piedi, si espongono, prendono una posizione. Poi capii che mancava qualcosa e mi è venuta in mente l’idea di porre accanto alle tre sedie una quarta sedia, vuota. Come dicevo prima, nelle mie opere cerco di coinvolgere attivamente il pubblico, dal momento che, l’arte non deve essere solo un pezzo da museo intoccabile, ma qualcosa da impugnare, usare, con cui interagire. L’arte, a mio avviso, deve porre domande, innescare dubbi e riflessioni. In questo caso: prendere una posizione, cambiare un punto di vista, esporsi oppure no?

Così ha sviluppato l’idea di un monumento pubblico sui generis.

Volevo che quest’opera si differenziasse dalla canonica tipologia del monumento pubblico. Così, decisi di non porla sul piedistallo, ma a livello strada, che fosse itinerante e annullasse la distanza con il pubblico.

Anything to Say? è realizzata in bronzo, eppure si tratta di un’opera itinerante. Come spiega questo ossimoro?

Ho scelto di realizzarla in bronzo, perché il materiale che si adopera incarna il concetto stesso dell’opera. Nello stesso tempo, ho deciso che il gruppo scultoreo sarebbe stato itinerante. Una copia sola, in giro per il mondo.

Una scelta scomoda e difficile, tanto per i costi di realizzazione iniziali, quanto per quelli di movimentazione. Ce la può spiegare meglio? Perché non realizzarne diverse copie in un materiale più maneggevole?

Dunque, la scelta del bronzo è stata determinata dal fatto che volevo realizzare un monumento nel senso più classico del termine. Come quelli che generalmente si trovano nelle piazze. Il bronzo è un materiale pressoché eterno, istituzionale, pesante, pressoché indistruttibile e resistente alle intemperie. Ovviamente, tale scelta ha comportato un’ingente spesa per la realizzazione del gruppo; basti pensare che l’opera pesa una tonnellata.

Questo ne rende particolarmente complessa la movimentazione, sia da un punto di vista fisico, sia logistico. Infatti, per ogni nuova collocazione, è necessario sbrogliare le problematiche burocratiche legate ai permessi. Per esporla pubblicamente è sempre necessario un coinvolgimento delle istituzioni e mettere un’opera in piazza è sempre un atto politico. Qui si crea un primo, interessante corto circuito, perché, anche se Anything to Say? ritrae tre personaggi scomodi, per gran parte del mondo controversi, abbiamo sempre ricevuto da parte delle istituzioni il permesso di esporla.

Mi hanno chiesto in diverse occasioni di realizzarne una copia – la prima fu l’Università di Berkeley, in California – ma alla fine, ho declinato l’invito. L’opera è unica, non riproducibile. Non so se un giorno Anything to Say? troverà una casa, un luogo idoneo ad accoglierla stabilmente, ma per ora il suo compito è muoversi, girare le piazze del mondo, ininterrottamente. 

Per tornare al materiale?

Devo dire che la scelta non poteva che essere questa. Il bronzo detiene un pesante valore concettuale dal momento che in passato fu anche utilizzato per la realizzazione di palle di cannone. Mi risuonava l’idea di creare un’opera che fosse un’arma bianca. Perché, per me Anything to Say? è un’opera di costruzione di massa critica. Un’opera che, anche attraverso il peso e la durezza del materiale che la costituisce, esprime la forza, l’indistruttibilità e l’incorruttibilità di queste tre persone, che nella mia visione sono tre eroi contemporanei. Una resistenza fisica per esprimere un concetto semplice in chiave ma monumentale.

La sua opera si caratterizza anche per un altro elemento di unicità. Come ha affermato lei stesso Anything to Say? ha un DNA classico e uno spirito nuovo rivoluzionario che, a mio parere, si manifesta anche nel fatto che, pur avendo le sembianze di un monumento commemorativo non lo è affatto, perché è dedicato a dei personaggi ancora vivi. Come se lei stesse lanciando anche un’ultima provocazione alle autorità…

Esatto! Mi preme sottolineare che Anything to Say? non è un monumento commemorativo perché Assange, Snowden e Manning sono ancora vivi. Anything to Say? è un monumento partecipativo, che intende lanciare un campanello d’allarme. Per questo uso la monumentalità. I tre protagonisti, in scala reale, sono rappresentati in una posizione e con indumenti ambivalenti. Indossano tute e scarponi che possono essere interpretati sia come gli abiti di militanti pacifisti, sia come quelli di prigionieri condannati al patibolo. Così come la loro posizione eretta sulla sedia può essere letta tanto come un atto di coraggiosa leadership, quanto come l’attimo prima di un’esecuzione capitale. 

Insomma è un’opera che non lascia spazio all’indifferenza

Proprio così. In quanto opera di costruzione di massa critica, preferisco che generi fastidio e disapprovazione, ma mai indifferenza. Perché, a mio parere, ogni essere umano ha il dovere di alzarsi in piedi e prendere una decisione.

Intervista di Ludovica Palmieri

 

 

 

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