Ignazio Buttitta nacque a Bagheria il 19 settembre 1899 e vi morì nel 1997. Visse in prima linea le lotte contadine, le due guerre mondiali, la Resistenza nelle Brigate Matteotti, l’impegno contro la mafia. Frequentò le scuole solo sino alla quinta elementare, ma ciò non gli impedì di essere tra le personalità più attive della vita sociale e civile di quegli anni. Nel 1922, infatti, fu tra i fondatori del circolo culturale Filippo Turati, che pubblicava il settimanale La povera gente. Arrestato per una manifestazione contro il dazio, nel 1924 aderì al Partito Comunista cui restò iscritto per tutta la vita. Sotto il fascismo continuò a pubblicare clandestinamente le sue poesie sul mensile La Trazzera, soppresso nel 1929, e poi sul quindicinale Il Vespro Anarchico. Dal 1943 al ’54 fu in Lombardia, dove frequentò assiduamente Quasimodo e Vittorini, per poi fare ritorno definitivamente in Sicilia. Erano gli anni della guerra fredda, ma l’adesione di Buttitta e del pittore Renato Guttuso alla linea del realismo socialista, imposta dal partito, non fu mai atto di obbedienza formale né di opportunismo politico, piuttosto si trattò di un convincimento intimo che scaturiva dalle esperienze vissute nelle campagne sin dall’infanzia e dall’urgenza di denunciare il dolore muto o rabbioso ed anche l’orgoglio e la fierezza di donne e uomini poveri sì, ma dalla schiena dritta. Tra le sue raccolte, Lu trenu di lu suli, che contiene La vera storia di Salvatore Giuliano (1956), La peddi nova (1963), Il poeta in piazza (1974) e tante altre. Collaborò anche con Giorgio Strehler e scrisse testi per Rosa Balistreri.  Davvero poeta di piazza, che scrive e recita nei comizi, nelle assemblee o nelle cene tra compagni allietate dalla chitarra e dalla voce drammatica ed emozionante della sua amica e interprete, Rosa Balistreri. La poesia di Buttitta nasce, dunque, per essere scandita  a gran voce e cantata. 

L’esempio più noto è certo Il Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali nella versione che ne ha dato il cantastorie Ciccio Busacca. Salvatore Carnevale, sindacalista di Sciara, fu ucciso nel 1955, cinque anni dopo il varo della tanto attesa – e altrettanto deludente e disattesa – riforma agraria, assassinato dalla mafia (mandanti i baroni e il ceto politico democristiano) per aver appoggiato le rivendicazioni contadine contro il latifondo, ultimo grano di un lungo rosario di sangue, che va da Nicolò Azoti a Placido Rizzotto. Sua madre, Francesca Greco, fu la prima donna a rompere il muro dell’omertà denunciando mandanti ed esecutori dell’assassinio, come poi avrebbe fatto nel 1978 Felicia Bartolotta Impastato, madre di Peppino.

Lu sucialismu cu’ la so’ parola/ pigghia di ‘n terra l’omini e l’acchiana,/ e scurri comu acqua di cannola/ 

ed unni passa arrifrisca e sana/ e dici: ca la carni nun è sola/ e mancu è farina ca si scana;/ uguali tutti, travagghiu pi tutti,/  tu manci pani si lu sudi e scutti.

(il socialismo con le sue parole solleva gli uomini prostrati a terra, e scorre come acqua di fonte, che ovunque passa rinfresca e guarisce, e insegna che la carne – l’umanità – è una sola e non è affatto farina da spianare; uguali tutti, lavoro per tutti, tu mangi il pane se te lo sei sudato e meritato).

Altra celebre poesia di Buttitta è quella dedicata allo sradicamento culturale perpetrato per secoli dai numerosi conquistatori dell’isola, Lingua e dialettu, una riflessione sulle parlate locali che si perdono: dimenticate, disimparate, rinnegate da un popolo che troppi invasori ha subito. Essi di tutto lo hanno derubato e, soprattutto, con la lingua, della sua identità. Il poeta avoca a sé il compito di recuperarla, per quanto ancora è possibile.

Un populu diventa poviru e servu/ quannu ci arrobbanu a lingua/ addutata di patri: è persu pi sempri./ Diventa poviru e servu/ quannu i paroli non figghianu paroli/ e si mancianu tra d’iddi. […]

Nuàtri l’avevamu a matri, nni l’arrubbaru; aveva i minni a funtana di latti e ci vippiru tutti, ora ci sputanu. Nni ristò a vuci d’idda,/ a cadenza,/ a nota vascia/ du sonu e du lamentu:/ chissi non nni ponnu rubari./ Non nni ponnu rubari,/  ma ristamu poveri/ e orfani u stissu.

(Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua ereditata dai padri: è perso per sempre. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si divorano tra loro. Noi l’avevamo una madre, ci è stata rubata; aveva seni come fontane di latte a cui bevvero tutti, ora ci sputano. Di lei ci è rimasta la voce, la cadenza, l’inflessione bassa di suono e di lamento: queste non ce le possono rubare. Non ce le possono rubare, ma restiamo poveri e orfani ugualmente)

Il dialetto impiegato da Buttitta, in realtà, è molto vicino all’italiano e ciò si spiega con il suo intento didascalico: vuole che tutti lo possano leggere, o meglio ascoltare. L’inflessione della voce ricordata sembra proprio quella, a volte calda a volte roca, di Rosa, per la quale tante canzoni compose.

Una lingua, un dialetto esprime un ordine del pensiero, un’interpretazione della realtà, è dunque l’esito di una tessitura secolare che, però, adesso viene disfacendosi, mentre l’autore cerca caparbiamente e faticosamente di rappezzarla. Lingua nazionale e dialetto, ma anche suolo nazionale e isola, sono raffigurati, rispettivamente, come una madre adottiva e sterile, che schernisce il figlio povero, a fronte della madre naturale che aveva i minni a funtana di latti ma ci vippiru tutti, nni l’arrubbaru. Lingua madre e terra madre: devastate e saccheggiate. È un tema che ritorna frequente nel canto del poeta bagherese, come nel furto del sole della poesia I pirati a Palermo, mirabilmente interpretata dall’indimenticabile e indimenticata Rosa, la quale cantava: quannu moru portatimillu ‘n ciuri, quannu muru faciti ca nun moru. Ecco, questo breve ricordo è il nostro fiore per il maestro Ignazio.

 

tratto dall’opera Tessere di luce, di Antonella Chinnici\Alessandra Colonna Romano\Daniela Musumeci, (Navarra Editore)