Quel che dico, me ne rendo conto, può suonare paradossale […] ma come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia? […] La mafia si alimenta dello Stato e adatta il proprio comportamento al suo. […] È la mafia ad imporre le sue condizioni ai politici e non viceversa. […] La mafia tuttavia non si impegna volentieri nell’attività politica. I problemi politici non la interessano più di tanto, finché non si sente direttamente minacciata nel suo potere o nelle sue fonti di guadagno. 

Occorre sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze. […] Cosa Nostra ha saputo invece innestarsi nello sviluppo, deviandone il corso degli effetti. […] Siamo giunti al punto che qualsiasi intervento economico dello Stato rischia soltanto di offrire altri spazi di speculazione alla mafia e di allargare il divario fra Nord e Sud. Lo stesso dicasi dei contributi a fondo perduto. Soltanto una politica di incentivazione, purché ben gestita, può ottenere a mio avviso effetti positivi.

Non attardiamoci, quindi, con rassegnazione, in attesa di una lontana crescita culturale, economica e sociale che dovrebbe creare le condizioni per la lotta alla mafia. Sarebbe un comodo alibi offerto a coloro che cercano di persuaderci che non ci sia niente da fare. […] Possiamo sempre fare qualcosa

Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.

Spesso ci stupiamo della quantità incredibile di dettagli che popolano la memoria della gente di Cosa Nostra. Ma quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita.

Conoscendo gli uomini d’onore ho imparato che le logiche mafiose non sono mai sorpassate né incomprensibili. Sono in realtà le logiche del potere, e sempre funzionali ad uno scopo. Ho imparato ad accorciare la distanza fra il dire e il fare. Come gli uomini d’onore.

Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni.

Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di “dire la verità”, è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità.

 

Così Falcone ci spiazzava già nel 1991, nell’intervista rilasciata a Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, edita da Rizzoli: utilizzando l’irrinunciabile paradigma della complessità, individuava le trasformazioni della mafia imprenditoriale e finanziaria nell’era della globalizzazione; con parole profetiche ne coglieva i nuovi circuiti speculativi e con rigore spregiudicato smontava i falsi miti della facile propaganda dei “professionisti dell’antimafia”, per usare un’espressione di Sciascia (mafia-piovra, mafia-cancro, mafia-antistato), fino all’affermazione che la mafia ci assomiglia. Di lì a poco anche Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia protetta da Borsellino, avrebbe scritto nel suo diario che, per combattere la mafia, dobbiamo cominciare dall’intimo delle nostre coscienze.

Falcone arriva a sostenere: la mafia mi ha impartito una lezione di moralità; ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore.  Grande lezione di nonviolenza questa e rifiuto di qualsiasi semplificazione o di qualunque logica duale che divide la società in buoni e cattivi, il mondo in bianco e nero.

Oggi Palermo, e non soltanto Palermo, commemora il trentesimo anniversario della strage di Capaci con un flusso di manifestazioni che vedono, da una parte, le autorità costituite schierate in bella mostra sugli scranni dell’aula bunker, sui palchi del Foro Italico e dell’albero di via Notarbartolo, a ripetere il cerimoniale di rito, fatto apposta per tacitare le cattive coscienze dei collusi e degli indifferenti; dall’altra parte, la società civile, giovani, studenti, membri dell’associazionismo e del volontariato, che confluiscono da molteplici cortei, colorati delle bandiere delle pace, verso il medesimo albero Falcone, divenuto altare laico dell’indignazione. E il messaggio di striscioni, lenzuoli e bandiere è contro la violenza: la violenza delle armi, la violenza del maschilismo (di cui la mafia è compenetrata), la violenza degli affari e del profitto (fine ultimo di ogni mafia). Scriveva Michele Pantaleone: quando il capitale è nelle mani di pochi, esso genera mafia. 

Combattere contro la mafia, dunque, significa anche combattere contro il capitalismo vorace che dissangua il Sud del mondo e milioni di poveri nel Nord del pianeta; significa anche combattere la corruzione sistemica, le ineguaglianze sociali, l’ignoranza e l’ignavia. #

Hanno ragione gli studenti di Giurisprudenza a titolare il proprio manifesto per il corteo di oggi alle 15:00 #23Maggio. Passerella di molti, impegno di pochi.