In questi giorni abbiamo sentito molto parlare di questa parola: “complessità”.

Un termine che fino l’altro giorno era importante per definire le realtà che viviamo, che si intersecano. Che creano dinamiche. Che producono pensieri elaborati.

In tre giorni abbiamo scoperto, nostro malgrado, che riflettere sugli eventi storici, culturali, sociali, etnici, religiosi, geopolitici ed approfondire i contesti per quel che erano e quel che sono con i meccanismi di causa-effetto è sinonimo di “sovversione”.

Se si parla di complessità, per capire meglio il conflitto ucraino e la guerra in Donbass, si viene addirittura tacciati di essere “filo-russi”: ecco come i social media hanno contribuito a rovinare il dibattito, dopo che questo era già stato vanificato dal mass media tradizionali come la TV.

Nando Dalla Chiesa, Gramellini, Parenzo e molti altri hanno detto chiaramente in questi giorni che parlare di “complessità” è un modo di autoelogiarsi e di elevarsi intellettualmente rispetto agli altri, oltre ad essere un modo per “stare con Putin”. Parenzo ha trattato lo storico Franco Cardini, grande esperto di Medioriente, con lo stesso atteggiamento che si riserva a chi non capisce di cosa si stia parlando, non riconoscendogli autorevolezza. 

Per capire meglio l’abominevole odio che questi personaggi hanno verso la COMPLESSITÀ, ieri Massimo Gramellini ha paragonato la Nato a una donna stuprata.

“Cioè, vorreste negare che Putin sia un despota intriso di volontà di potenza che ha in uggia le nostre libertà? «Sì, forse, in parte, ma non proprio: la situazione, infatti, è più complessa. Se la Nato non lo avesse sfidato, lui mai e poi mai avrebbe bombardato. Non ci credete? Significa che rifuggite la complessità».

Portando il ragionamento all’estremo, chi vuole cercarlo troverà sempre un qualcosa avvenuto «prima» della violenza che contribuisce a spiegarla, se non a giustificarla. Lo stupratore va condannato, ci mancherebbe, ma se la ragazza non avesse indossato la minigonna… Lo svaligiatore di case è colpevole, colpevolissimo, però si tratta di un disperato che non andava messo nelle condizioni di non avere più nulla da perdere(…)”.

Non si capisce se avesse voluto fare una provocazione, ma sta di fatto che gli è riuscita male. Un esempio di banalità ai limite dell’irrazionalità. Un falso sillogismo che vuole paragonare chi sta dicendo che la guerra in Ucraina esiste da 8 anni dopo un colpo di Stato, con chi invece guarda alla minigonna di una donna per stabile l’origine di uno stupro. La prima è il tentativo di analisi e di contestualizzazione, la seconda è l’origine di una discriminazione. Il fatto di contestualizzare e capire gli eventi nella loro materialità e logicità è un tentativo di complessità; guardare alla minigonna di una donna per legittimare uno stupro è un episodio, oltre che di irrazionalità sessista e discriminazione, di banalità. 

Quindi l’esempio oltre a non essere inerente ed illogico è pure banale, perché non riconosce che è la “banalità” a far equivalere la minigonna allo stupro, mentre è la “complessità” che volendo analizzare il fenomeno dichiara che lo stupro è la degenerazione del senso di possessione, di proprietà e di potere che sfocia nella violenza sessuale sulla donna. L’origine della violenza sessuale è strutturale: come se la donna fosse un oggetto di proprietà dell’uomo, il quale può fare ciò che vuole. Per ribadirlo, l’origine è complessa. Questo è il livello dell’informazione, o per meglio dire della propaganda di guerra, che i media ci stanno riservando in queste settimane: la banalità dei “banalizzatori seriali”, una nuova categoria di opinionisti che del mondo non sanno niente ma si ostinano a leggerlo con le lenti dello stereotipo, del doppio standard e con le categorie moralistiche del “buono” e del “cattivo”. 

Quest’ultimi agiscono con le stesse logiche di sorveglianza per controllare le opinioni, canalizzarle, schierarle e dividerle. In nome della ormai dichiarata “banalità”, stanno inebriando l’opinione pubblica di polarizzazioni, divisioni, isterie e paranoie, ed hanno messo in pericolo la base delle relazioni umane: il dialogo.

La forma dialogica, la dialettica e il dibattito sono sempre state fonte di ispirazione e di rinnovamento. Oggi questo non avviene più non perché sia impossibile averlo, ma perché con mostruose abilità censorie si induce a pensare che questo sia impraticabile a causa di “visioni distorte della realtà” con cui non ci si può confrontare.

Affermare ciò significa già accettare le logiche della sorveglianza, la stessa “sorveglianza” che in qualche modo parla anche la filosofa canadese Shoshana Zuboff. 

Se oggi chi pone delle questioni sui vaccini, sulla medicalizzazione della società viene subito additato di essere “novax” e, dall’altra parte, chi invece si dichiara favorevole ai vaccini viene additato come un assassino, vuol dire che stiamo già ragionando in termini di conflitto, in termini di guerra dove la percezione è che l’uno sta mettendo in pericolo l’esistenza dell’altro.

Oggi si rinuncia a capire che esistono le “sfumature di pensiero” che hanno delle ragioni, valide o non valide che siano, che li spingono a fare determinate scelte. “Sfumature di pensiero” che sono lontane anni luce dalle polarizzazioni che mettono in pericolo le democrazie.

Queste logiche della sorveglianza che vediamo veicolare dai mass media hanno un origine nel medium digitale che amplifica le notizie e le riflessioni rendendoli esasperanti. 

Se non ci fossero gli algoritmi, i meccanismi di amplificazione degli eventi, forse la gente si accetterebbe di più e il tutto si risolverebbe in “abbiamo due opinioni diverse”. Invece l’etichettatura, la banalizzazione dei contenuti e la “riduzione della complessità” portano ad un clima ostile che oggi porta a guardarci in modo minaccioso in base a ciò che solo dubiti.

Se prima per capire come la pensava una persona su un certo tema bisognava parlare a lungo con quella persona per capirne le logiche, le riflessioni e i ragionamenti; oggi si pensa illusoriamente che basti porre una domanda precostituita e preconfezionata per capire vagamente tutto il pensiero. “Sei a favore dei vaccini?”; “Cosa pensi dell’invasione russa dell’Ucraina?”. Si tratta di domande che non presuppongo premesse ed argomentazioni ma una risposta immediata in base alla quale rimandare all’armamentario simbolico e contenutistico che le logiche della sorveglianza hanno generato illusoriamente, inducendoci a credere che la realtà fosse veramente riassumibile in compartimenti stagni. 

Due parole servono per descrive questa situazione: comunicazione e manipolazione. 

Oggi il dibattito non è sano perché è drogato dall’istigazione di “guerre culturali” che nulla hanno di razionale, ma che lo diventano se i presupposti sono le dinamiche ostili tra “mondo dei social” e della “TV tradizionale” ; tra il “mondo dell’informazione professionale” e della controinformazione. 

Il potere strumentalizzante oggi è il potere per eccellenza e nessuno sociologo può definirsi tale se non analizza la società occidentale moderna ovviando questa logica della sorveglianza, la sua omologazione, la sua deriva intrinsecamente autoritaria e la distorsione irrazionale della realtà. C’è persino il rischio che dibattere di questi argomenti diventi assurdo ed incomprensibile per l’incapacità di apprenderli profondamente a partire dall’importanza e dal peso delle parole. Un esproprio del linguaggio come mai non era successo prima.

Il nostro motto dovrebbe essere un elogio della complessità con la consapevolezza che “ridurre la complessità”, come ci ricorda Pasolini, è fascismo.