Il film della Netflix “Don’t Look Up” offre una serie di critiche all’attuale società statunitense (critiche che possono essere estese a tutte le società capitalistiche in generale), ma purtroppo riporta anche la degradazione della figura della donna, presente in tutti i personaggi femminili. E il suo successo al botteghino indica, tra le altre cose, che stiamo ancora slittando per quanto riguarda il bisogno di rispetto per la diversità.

Oltre a evidenziare quanto la società è disorientata e alienata a livello di comunicazione, estranea alle questioni veramente importanti, e a mettere in discussione i valori capitalistici e le sue implicazioni con i sistemi politici attuali (che non è certo una novità per chi vede due dita davanti al proprio naso), a mio avviso il suddetto film è infelice sotto molti aspetti, ma qui voglio limitarmi alla rappresentazione della figura della donna, che riproduce una serie di stereotipi.

Subito all’inizio, si può vedere come viene screditata la giovane scienziata Kate Dibiasky. Interpretata dall’attrice Jennifer Lawrence, il personaggio, che sta cercando di ottenere un dottorato, scopre la cometa che distruggerà la Terra. Nel frattempo, la scoperta viene accreditata al Dott. Randall Mindy, lo scienziato più esperto con cui lavora, interpretato da Leonardo Di Caprio.

Offuscamento storico

Sono diverse le scene in cui Kate viene ignorata, come per esempio quella della rete televisiva, e quella della Casa Bianca. In TV Kate viene presentata come una giovane isterica, poiché non riesce ad accettare l’indifferenza dei giornalisti rispetto al problema che era andata a riferire (la distruzione della Terra da parte della cometa che ha scoperto), ed esprime la sua indignazione in maniera esplosiva. Alla Casa Bianca, per tutto il tempo l’assessore della Presidente la scredita tramite vari tentativi di ridicolizzarla, in una totale mancanza di rispetto.

Questi comportamenti diretti verso il personaggio in questione fanno seguito alla violenza di genere che esiste anche nel mondo scientifico, e che è stata fortemente combattuta dalle donne scienziate di tutto il mondo. Molti di questi casi di mancanza di rispetto e di discredito della donna nella scienza sono accaduti nel corso della storia, come l’esempio della matematica Mileva Maric, prima moglie di Albert Einstein, poco o quasi mai ricordata come partner professionale di quello che è considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi.

Ma non è finita. Oltre alla discriminazione di genere patita da Kate, c’è un altro personaggio che subisce una stereotipazione di genere. Sto parlando della giornalista Brie Evantee, interpretata dall’attrice Kate Blanchett, descritta come “femme fatale”, “distruttrice di famiglie”, quella che non rispetta i matrimoni altrui, visto che viene dipinta come l’amante di vari uomini sposati, tra cui si inserisce il Dott. Mindy, ma anche due ex-presidenti degli Stati Uniti, a cui la giornalista accenna in una delle chiacchierate da letto con il suo amante scienziato.

La “buona moglie”

Dal punto di vista  professionale, alla giornalista Brie Evantee non viene dato nessun merito. Anzi. Nella prima scena in cui appare, arriva in fretta per condurre il telegiornale, e viene sottilmente “ripresa” dal collega, che fa capire quanto Brie sia incline a bere alcolici. Ma il personaggio viene delineato praticamente come una “mangiatrice di uomini”, e in più viene sottolineata la sua “mancanza di professionalità”, visto che in una delle scene appare mentre intervista il Dott. Mindy e intanto lo accarezza sotto il tavolo.

La fedele rappresentazione del patriarcato continua nel film grazie al personaggio di June Mindy, la moglie del Dott. Mindy, interpretata dall’attrice Melanie Lymskey. Mentre il marito è uno scienziato votato al bene dell’umanità, lei è una semplice casalinga, moglie e madre. Tutte le volte che appare, il personaggio incarna questi tre ruoli, che spesso hanno marchiato le performance dei personaggi femminili in molti film nel corso della storia del cinema.

June non ha un lavoro, non ha amici/amiche e la vediamo solo dentro la casa dove vive con il marito e i due figli. L’unica volta che la vediamo fuori dal suo ambiente casalingo è quando va a cercare il marito in una stanza di hotel, e scopre che lui la tradisce con la giornalista Brie Evantee. Come se non bastasse, tradita dal marito, la “buona moglie” esprime giusto un accenno di indignazione per il tradimento, e se ne torna a casa. Dulcis in fundo, alla fine del film June lo perdona e i due “vissero felici e contenti” (in questo caso specifico, morirono felici e contenti).

La forza del potere simbolico

Ma la rappresentazione del maschilismo che chiude il cerchio è quella del personaggio Janie Orlean, interpretata dall’attrice Meryl Streep. Nonostante gli Stati Uniti non abbiano ancora eletto una donna come Capo del Potere Esecutivo Federale, in questo film il paese è governato da una donna. Eppure, quella che poteva essere un particolare interessante diventa una rappresentazione disgustosa, perché il personaggio è descritto come una “donna stupida” e una governatrice estranea alle questioni importanti del paese.

Questa caratterizzazione di una donna Presidente del paese più potente del mondo dimostra in maniera enfatica come l’autore e regista del film, Adam McKay, non abbia nessun rispetto per la diversità di genere, e ignora la necessità di rappresentazioni che siano più vicine alla lotta alle oppressioni.

Ovviamente ho capito che l’intenzione di questo film era di fare della satira sulla società e sul potere politico. Ma allora perché, in una situazione in cui il risultato finale è così catastrofico, la principale responsabile della catastrofe è una donna? Mi sembra abbastanza allusivo. E non sto dicendo che una donna sia migliore di un uomo come leader politico.

Margaret Thatcher si è messa a capo del governo del Regno Unito per mostrare che il genere non determina le azioni. Durante i suoi tre mandati (dal 1979 al 1990) ha messo in atto misure fortemente dannose per la classe lavoratrice, oltre ad aver fatto la guerra delle Falkland, che ha lasciato enormi traumi nella società argentina.

E non possiamo neanche dire che l’attuale vice-presidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, sia questo granché dal punto di vista politico. Pur essendo donna, nera e figlia di immigrati, condizioni che la porrebbero “dalla parte degli oppressi”, non si è minimamente occupata di alleviare le oppressioni, soprattutto per quanto riguarda la politica migratoria del paese, che avrebbe reso più facile la vita di milioni persone che, come i suoi genitori, cercavano una vita migliore negli Stati Uniti.

Quello che sto cercando di esprimere con la mia critica al film “Don’t Look Up” è la mancanza di una rappresentazione meno prevenuta e stereotipata della figura della donna, considerando tutti gli sforzi che i movimenti e le persone che lottano per l’uguaglianza di genere hanno intrapreso storicamente.

E questo perché, per quanto la rappresentazione romanzata sia simbolica, sappiamo che il potere simbolico ha una forza enorme nell’immaginario sociale; sappiamo che può contribuire in maniera significativa, sia nel processo di riproduzione che in quello di destrutturazione di pregiudizi e discriminazioni presenti nelle strutture sociali, che a loro volta influenzano la politica, l’economia, la cultura e gli altri ambiti.

La cosa più sconcertante in questa situazione è che “Don’t Look Up” stia ricevendo critiche positive persino negli ambienti di sinistra, e questo dimostra che anche loro stanno sorvolando su questioni cruciali come la rappresentazione conservatrice del genere femminile, il che, a mio avviso, significa che siamo ancora molto lontani dal riuscire a sensibilizzare le nostre società sull’importanza del rispetto verso la diversità.

Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza