l’articolo prende spunto dall’incontro svoltosi lo scorso 3 dicembre all’istituto magistrale “Regina Margherita” di Palermo, sul tema “La riforma della giustizia e la lotta alla mafia”, organizzato da “No mafia memorial” e CSD “P. Impastato”, al quale hanno partecipato Pietro Grasso, Pier Giorgio Morosini e Fabio Lanfranco

 

Mi è capitato di assistere di recente ad un incontro sulla riforma della giustizia firmata dal ministro Cartabia, a cui partecipavano giuristi, magistrati e avvocati. Senza entrare troppo nei particolari, spesso anche di natura molto tecnica, mi pare di capire che su alcuni passaggi cruciali ci fosse una sostanziale uniformità di vedute. 

Particolarmente criticata è stata la norma che prevede che sia il parlamento a determinare gli indirizzi di politica giudiziaria, sottolineando giustamente come il cambio delle maggioranze parlamentari porterebbe a bruschi cambiamenti di rotta nella scelta dei reati da perseguire in modo prioritario. Tutti auspicavano, a tal proposito, che gli indirizzi di politica giudiziaria rimanessero di competenza della magistratura. Ovviamente alla base di tali problematiche stanno i tempi stretti dell’iter giudiziario che si rendono necessari a causa della improcedibilità, cioè del fatto, che superati certi limiti temporali, il processo viene praticamente prescritto, finendo nel nulla. Per evitare scelte troppo selettive, che potrebbero mettere in crisi il principio della “obbligatorietà dell’azione penale”, si proponeva infine di procedere alla depenalizzazione dei reati minori, trasformandoli in infrazioni da trattare attraverso procedure amministrative. 

Come si può vedere si tratta di proposte che hanno tutta l’apparenza di essere fondate su considerazioni di buon senso a tutti comprensibili. Io tuttavia da non addetto ai lavori, ma da cittadino legato a una visione che definirei di garantismo integrale, mi permetterei alcune significative obiezioni che per comodità sintetizzo in tre punti.

1- Il concetto stesso di “politica giudiziaria” è inammissibile. L’amministrazione della giustizia non può essere delegata a scelte di natura politica. Giusta l’obiezione contro il possibile decisionismo delle maggioranze parlamentari. Ma lo stesso ragionamento può essere riproposto, esattamente negli stessi termini, nei confronti delle scelte dei magistrati. Scelte di questo tipo hanno sempre una connotazione politica, a prescindere da chi vengano fatte. Quello che viene messo in discussione in questo modo, non è soltanto l’obbligo della azione penale, ma la stessa sovranità della legge, che non può sottostare a (sempre discutibili) interpretazioni, a partire da situazioni contingenti. Una norma giuridica ha un contenuto (solo molto parzialmente sottoponibile alle interpretazioni giudiziarie) e una vigenza “senza tempo”, che possono essere modificate o soppresse, in maniera esplicita e non contingente, solo da una altra norma giuridica. Se una norma ha un contenuto politico o sociopolitico, questo è stato prodotto nella discussione parlamentare che l’ha messa in atto, ed è infine fissato nelle espressioni letterali della norma stessa, che non possono essere messe in discussione in sede di applicazione giudiziaria. In conclusione l’espressione “politica giudiziaria” è inammissibile perché mina lo stesso principio della divisione dei poteri tra legislativo e giudiziario. Il legislativo fa le leggi e non può e non deve intervenire sulle questioni che riguardano la loro applicazione. Il giudiziario deve applicare la legge senza distinzioni e senza possibili scelte di priorità politica, ma seguendo modi e logiche che hanno portato qualcuno a definire il ruolo del magistrato come “bocca della legge”. Venire meno a questi valori può portare facilmente o ad una ingerenza della politica nella magistratura o ad una politicizzazione dei magistrati. Oppure, peggio ancora, ad entrambe le cose.

2- Depenalizzare, ma senza produrre misure amministrative afflittive o eccessivamente penalizzanti. Depenalizzare è oggi un’esigenza non più rinviabile. Il nostro sistema penale è caratterizzato da una enorme mole di reati, la maggioranza dei quali hanno un livello di pericolosità sociale molto basso, che in molti casi è praticamente pari a zero. Questa è la vera scelta urgente, in materia giudiziaria, che il nostro parlamento dovrebbe sentire l’obbligo di attuare in tempi il più possibile brevi. Gran parte dei problemi legati all’eccessiva lunghezza dei processi potrebbero essere in questo modo facilmente risolti, senza ricorrere a misure molto discutibili, e tutto sommato “pasticciate”, come quelle previste dalla riforma Cartabia. Ma su questo punto è necessario fare una importantissima precisazione. Parlare di sanzioni amministrative per i cosiddetti reati minori ha un senso solo a condizione che sia del tutto chiaro che i provvedimenti siano assolutamente privi di contenuti di tipo afflittivo che devono restare prerogativa esclusiva della azione penale. Anche il valore penalizzante della sanzione amministrativa deve essere minimo. Trattare con superficialità questo punto potrebbe portare alla situazione paradossale di sanzioni amministrative che, per lo stesso tipo di illeciti, portino a provvedimenti molto simili a quelli attualmente comminati in sede penale. Il che significherebbe, per colui che ha commesso l’infrazione, che nulla cambierebbe, se non il fatto, veramente fondamentale, che gli verrebbero negati tutti i diritti della difesa e tutte le garanzie che sono previste in sede penale.

3- Le “misure preventive”, in quanto tali, sono contrarie ai valori garantisti del diritto. Di misure preventive, per la verità, non si parla nell’attuale riforma, e nessuno dei partecipanti al convegno, a cui ho assistito, ne ha fatto minimamente cenno. Ma questo è un tema che ritengo assolutamente centrale per un corretto funzionamento della giustizia nel nostro paese, e che non può assolutamente essere eluso. Ed è anzi proprio il fatto che se ne parli molto poco che mi pare molto grave. D’altra parte, se consideriamo quelle che oggi sono le misure di prevenzione più conosciute ed applicate, e cioè quelle previste dalla normativa antimafia, ci appare subito chiaro il nesso con la pratica delle scelte di “politica giudiziaria”, che proprio nella visione di questa (presunta) antimafia, ci appaiono dettate da logiche di tipo emergenziale, che sono tipiche della politica e delle relative misure di polizia, e che sono invece nemiche giurate del diritto. Altro esempio di misure preventive particolarmente significative nel nostro paese sono quelle che colpiscono i militanti No Tav, anche in questo caso col pretesto della emergenza costituita da presunti pericoli all’ordine pubblico. Questo tipo di pratiche non hanno nulla a che fare con la giustizia, e sembrano piuttosto indicare una possibile svolta autoritaria nel governo del paese. Comunque sia, le misure preventive devono essere assolutamente cancellate dai provvedimenti amministrativi e come misure emergenziali e di polizia. Misure di tipo restrittivo (come inagibilità di alcuni beni, carcerazione preventiva ecc.) possono essere ammessi solo nell’ambito del processo penale, legate a specifiche accuse e con precise garanzie, limitazioni temporali e diritto di riparazione e risarcimento in caso di esito favorevole all’imputato del procedimento a cui è sottoposto.