I problemi evidenziati nella gestione della pandemia pare abbiano spinto le regioni ad aprire un dibattito, diremmo finalmente, intorno al futuro della sanità pubblica. La proposta più accreditata di cui si sta discutendo è quella della creazione di “Distretti Sanitari Territoriali”, a loro volta strutturati in “Case di Comunità”. La proposta è molto interessante, ma presenta alcune criticità che, come vedremo, potrebbero stravolgerne completamente il senso.

Di primo acchito l’idea in sé è da sostenere. Si tratterebbe in sostanza di qualcosa, in qualche modo,  assimilabile a quella “medicina di prossimità” da tempo sostenuta dalla parte più sensibile del mondo sanitario e dalle organizzazioni concretamente impegnate nel sociale. L’idea è quella di un servizio legato in modo duraturo alle esigenze del territorio e ai bisogni sanitari, anche di lungo periodo, dei suoi abitanti. La cosa comporterebbe anche una sorta di processo di de-ospedalizzazione, poiché le attuali strutture ospedaliere verrebbero sgravate da una serie di impegni impropri per dedicarsi a tempo pieno alla ”medicina d’urgenza” (per esempio e ovviamente i casi di pericolo imminente di vita) e alla medicina che definirei (non so se correttamente) ad alta intensità specialistica e tecnologica (per esempio interventi chirurgici complessi). Il resto verrebbe gestito dai distretti sanitari che avrebbero al loro interno, sia medici di base che medici specialisti, infermieri, con ogni probabilità la guardia medica H24 per le urgenze non estreme, e non si sa se anche un minimo di struttura amministrativa.

Le ipotesi sul tappeto sono al momento tre. Le prime due prevedono il passaggio dei medici di base e dei pediatri dallo status di liberi professionisti a quello di dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale. Per tutti nella prima ipotesi e solo per i nuovi assunti nella seconda ipotesi. Su questo torneremo. Ma intanto occupiamoci della terza ipotesi che se realizzata sarebbe una vera catastrofe e un tradimento degli stessi principi che ispirano l’idea della medicina territoriale.

L’ipotesi sarebbe quella di affidare ai privati la gestione dei distretti secondo la formula, già tristemente sperimentata nei disastri della Covid e non solo, del “privato convenzionato”. In pratica sarebbe un passo decisivo verso una ulteriore privatizzazione di tutto il sistema sanitario. Allo Stato non resterebbe, oltre agli ospedali (e non si sa fino a quando), che fare da garante delle polizze assicurative (private) dei cittadini assistiti. Un passaggio praticamente irreversibile e progressivo, poiché in futuro, di fronte alla solita presunta esigenza di ridurre la spesa pubblica sotto l’eterno ricatto del debito, si potrà, come d’altronde si fa in vari modi da trent’anni, tagliare la sanità senza neppure ricorrere a modifiche strutturali del sistema, visto che è già in mano ai privati, ma semplicemente riducendo le prestazioni garantite o tagliando la platea degli assistiti. O magari non si arriverà a tanto continuando a trasferire enormi quantità di denaro nelle tasche dei privati. (Pare che “Generali” abbia già un dettagliato piano nazionale che va verso la direzione descritta).

Un pericolo diverso ma altrettanto grave, e molto più subdolo, sta nelle prime due ipotesi, che sembrerebbero invece puntare sul mantenimento dell’intervento pubblico, se non addirittura su un suo potenziamento. Il passaggio dei medici di base alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale comporta la fine del rapporto fiduciario con l’assistito, sostanziato dalla possibilità di potere scegliere il proprio medico di famiglia. Ora io capisco che tale rapporto fiduciario è più dichiarato che reale, e capisco anche che la difesa che ne fanno le associazioni dei medici di base è più che altro strumentale e rivolta alla difesa dei loro privilegi che sono tanti, a cominciare dalla misura dei loro redditi, e tuttavia la cancellazione del cosiddetto  “rapporto fiduciario” merita una più attenta riflessione.

La pratica medica è sostanzialmente una pratica sociale, seppure sostanziata su base scientifica. Come tutte le pratiche sociali il suo valore si misura innanzitutto sulla qualità delle relazioni sociali e umane che riesce a istaurare. Questa è di fatto la base concettuale che fa da presupposto alla stessa idea di medicina di prossimità: Avvicinare il medico e il paziente; creare rapporti di lungo periodo fondati sulla reciproca fiducia e sulla comprensione dell’altro. In questo la capacità del medico deve essere quella di sapere creare un giusto equilibrio, dinamico e per niente facile, tra “umanità” e “professionalità”, senza andare a discapito né dell’una né dell’altra. (So bene di cosa parlo avendo fatto per tutta la vita l’insegnante).

In conclusione voglio cambiare registro e portare come esempio la mia esperienza di assistito. Col mio medico di base ho un ottimo rapporto. Spesso lo chiamo, dandogli ormai del tu, per chiarimenti e piccoli problemi e dubbi legati alla mia salute. Lui mi da consigli,  mi tranquillizza, oppure mi dice di passare dallo studio. Ogni mese mi invia online le ricette dei miei farmaci di routine. Pratica che è stata anche fortemente criticata, ma erroneamente. I farmaci prescritti (come avviene spesso, specialmente negli anziani) li assumo da più di dieci anni e non necessitano di un monitoraggio mensile, casomai semestrale o annuale. Proviamo ora ad immaginare un sistema come quello che viene ipotizzato. Cosa faccio? Per qualsiasi piccola questione faccio la fila per parlare con un medico che non conosco e che non mi conosce, e che, se è coscienzioso, mi sommerge di domande che varranno per quella sola unica volta che ci incontriamo? E ogni mese le ricette…..

Il paradosso sta nel fatto che proprio la medicina territoriale dovrebbe avere tra le sue  ovvie finalità, quella di potenziare le relazioni fiduciarie tra medico ed assistito, che dovrebbero  anzi essere estese ai medici specialisti, laddove la situazione impone una stabilità di rapporto.

Certo realizzare quanto dico non è privo di difficoltà. C’è la possibilità che si crei tra i medici una differenza nel numero degli assistiti con tendenziali ricadute su impegno lavorativo e relativa retribuzione. Cose che in genere mal si accordano con lo status di dipendente pubblico. Penso tuttavia che una via d’uscita non sia difficile da trovare. A titolo di puro esempio di possibile soluzione (tra le altre) si potrebbe pensare di assegnare ad ogni medico di base un numero fisso, e uguale per tutti, di assistiti pressappoco corrispondente alla media nazionale, fatte salve ovviamente particolari esigenze locali. Il cittadino avrebbe la possibilità di scegliere il proprio medico tra quelli ancora disponibili. È  vero che su numeri residuali la scelta potrebbe essere obbligata. Ma si potrebbe anche pensare a una oscillazione minima sul numero degli assistiti, e anche ad altre forme di elasticità relativa. L’importante è avere la volontà di trovare una soluzione, nella consapevolezza che “medicina di prossimità” e “rapporto fiduciario” restano valori complementari e irrinunciabili.