Da Capo Verde, Maria De Lourdes Jesus, giornalista, ricordando il suo “Non solo Nero” sulla TV nazionale italiana, e il radiofonico “permesso di soggiorno” di Rai 1, ci parla del suo impegno sociale e politico, delle difficoltà ma anche dei successi ottenuti per la sua Comunità Capoverdiana e non solo.

Maria, iniziamo la nostra intervista nel chiederti perché hai lasciato la tua bella Isola di Capo Verde.

Non ho scelto di emigrare. La mia emigrazione, prima per Lisbona all’età di 12 anni (nel 1968) e poi in Italia, rientra in un fenomeno più ampio della mia persona, qualcosa che coinvolge un intero popolo, la mia gente delle isole di Capo Verde, dove sono nata. Da tempo i capoverdiani condividono tutti lo stesso destino, quello di emigrare. Una sorte determinata sia dalle avversità naturali dell’ambiente sia dall’indolenza del regime coloniale nel cercare soluzioni alternative alla povertà. In queste condizioni la popolazione ha affrontato i frequenti e spesso tragici periodi di siccità mettendo in campo l’unica risorsa di cui disponeva, cioè l’energia di una popolazione giovane e abituata a duri sacrifici per sopravvivere. E dunque la mia generazione aveva tutti i requisiti fondamentali che caratterizzano chi è pronto ad emigrare: eravamo giovani, poveri ma non affamati, animati da un grande spirito di sacrificio, di generosità, guidati da principi e valori, desiderosi di lavorare, e con un progetto rigorosamente orientato al rientro, una volta raccolte le risorse necessarie a realizzare la propria vita nel paese d’origine.

Anch’io, armata e animata dagli stessi principi e ideali, come la maggior parte dei miei connazionali, ho intrapreso in modo naturale il cammino che tanti altri avevano già percorso verso l’America, il Portogallo, l’Olanda, la Francia e alla fine anche l’Italia, sul finire degli anni ‘60.

L’occasione di venire in Italia mi si è presentata quando mia sorella maggiore, Silvia (che oggi vive in Olanda con il marito, figli e nipoti) ha avuto la possibilità di venire a lavorare in Italia. Dopo sei mesi mi ha trovato un lavoro (domestico) presso una famiglia italiana. Era il 1971 e avevo 15 anni.

All’epoca mi trovavo a Lisbona. Lavoravo presso una coppia, lei capoverdiana e lui portoghese, più due figlie più o meno della mia stessa età. Non mi trovavo per niente bene con loro, mi trattavano malissimo, ma ho resistito animata da spirito di sacrifico e dalla paura del fallimento, una minaccia continua interiorizzata poiché non si rientra nel paese prima di aver felicemente realizzato il progetto migratorio. Resistere, resistere, nella convinzione che le cose sarebbero cambiate presto. Avevo veramente un pozzo di risorse costituito da una scorta inesauribile di speranza da dove attingevo forza ogni qualvolta che mi sentivo persa e demoralizzata. Ma superato il momento di sofferenza, il mio animo si rinvigoriva ancora di più, rafforzando ogni volta le mie decisioni. Le sofferenze facevano parte del prezzo che si doveva pagare per il raggiungimento dell’obiettivo, e il mio era quello di lavorare, mettere i soldi da parte per costruire la mia casa per poi rientrare definitivamente nella mia isola, S. Nicolau.

Questa era l’unica certezza, oltre il dolore provocato dalla nostalgia, che portavo con me quando il 7 maggio 1971 sono sbarcata a Roma.

Arrivi a Roma, senza sapere che cosa avresti trovato, senza conoscere i tuoi diritti di lavoratrice e di donna in una società a te sconosciuta e quali sono le esperienze politiche verso le quali andrai incontro?

Oggi posso dire di essere molto felice di essere arrivata in Italia negli anni ‘70 all’età di 15 anni, un’età che sappiamo bene cosa vuol dire. Nel mio caso, dopo aver superato la fase di tristezza dovuta al distacco dalla mia terra, dalla mia famiglia, dalle amiche, e dopo aver conosciuto i punti d’incontri (pochissimi e in qualche modo deludenti) della nostra comunità a Roma, ero pronta a spingermi oltre questi confini. Avevo una grande curiosità e sentivo una forte spinta, quasi un’esigenza incontrollata, vitale, di avvicinare e conoscere persone di questa nuova società, nonostante non avessi ancora gli strumenti per farlo poiché ancora non dominavo bene la lingua. In Italia, in questo nuovo ambiente che avevo incominciato a frequentare, si respirava un’aria che non conoscevo ancora, qualcosa di entusiasmante, di straordinario, soprattutto per una giovane che arrivava da un’isola dove la maggior parte della popolazione non aveva nemmeno conoscenza dell’esistenza di Amilcar Cabral, il nostro leader che stava lottando contro il colonialismo portoghese. Nella mia isola non avevo mai sentito parlare di lotte sindacali, di diritti dei lavoratori, di diritti delle donne, di divorzio, di maternità cosciente…

Ho conosciuto questo mondo così stimolante attraverso un gruppo di donne capoverdiane che avevano già preso contatto con i sindacati per affrontare le condizioni di sfruttamento che molte donne capoverdiane subivano in tante famiglie italiane. In particolare, assieme a due di queste amiche e ad altri capoverdiani, che fonderanno nel 1975 l’Associazione dei capoverdiani in Italia, proprio nello stesso anno dell’indipendenza di Capo Verde,anno in cui ho iniziato frequentare l’associazione fino ad entrare a far parte del direttivo, con lo scopo preciso di diffondere all’interno della nostra comunità la conoscenza dei diritti sindacali.

E’ proprio in questo periodo precedente all’Indipendenza di Capo Verde e delle altre colonie portoghesi che entriamo in contatto con i movimenti di solidarietà italiani, come il Molisv, ora Movimondo, con la Fondazione Lelio Basso, con l’Ipalmo e con persone importanti come Dina Forti e la fotografa Bruna Polimeni, tutti seriamente impegnati nel sostegno attivo a tutte le lotte di liberazione dei Popoli nel mondo.

Dopo l’indipendenza delle ex colonie portoghesi, la mia attenzione si è concentrata soprattutto verso il Sud Africa, dove ancora vigeva il vergognoso sistema dell’Apartheid.

Dal lavoro come domestica, all’impegno politico ed allo studio, alla conoscenza di te come donna e come proponitrice di diritti . Riesci a lavorare e studiare fino alla laurea , al riconoscimento come giornalista ed ai molti incarichi internazionali. Ma due programmi ho amato molto da te condotti, uno era “ Permesso di soggiorno, a Radio 1, l’altro : “Non solo Nero”, dove per la prima volta sulla TV di Stato, RAI 2, si parlava di migranti, di profughi, di fughe per la sopravvivenza. Raccontavi un mondo di mondi, quello dei migranti. In trasmissione parlavi in Italiano, capoverdiano e portoghese. Di fatto una mediatrice culturale? Cosa vuole dire questo, soprattutto per le 2 e 3 generazioni dei capoverdiani in Italia?

Il mondo di cui parlavo nella trasmissione radiofonica della Radio Uno “Permesso di soggiorno”, è un mondo molto ricco, molto dinamico, in continuo cambiamento perché costituito dall’incontro di persone che provengono da paesi di lingua e cultura spesso molto differenti. E’ un intero popolo molto attivo che con il suo lavoro, diffuso ormai in molti settori dell’economia italiana, sta dando un grosso contributo alla ricchezza di questo paese e, attraverso le rimesse, alle ricchezze quello dei molti paesi di provenienza. E’ un mondo in movimento, che sta cambiando e nel suo percorso lancia continuamente dei segnali precisi di richiesta di inserimento in questa società. Chiedono una maggiore partecipazione nelle decisioni che li riguardano soprattutto per superare così le barriere legislative che fondamentalmente costituiscono le cause che escludono molti immigrati dal riconoscimento dei diritti di una piena cittadinanza a molti di loro immigrati che si sentono ormai cittadini di questo paese.

Sono loro con il proprio nucleo familiare, con il loro bagaglio culturale, con le loro attività lavorative a cambiare la fisionomia di questo paese e a caratterizzare l’Italia di oggi come una società multiculturale.

Questo fenomeno che si sta verificando in Italia ed in Europa è un fatto che raggiunge una dimensione straordinaria, tanto da far paura a molte persone, a chi non è ancora preparata, a chi non possiede strumenti culturali per capire ed interpretare i nuovi segnali che una nuova società, una società multiculturale, trasmette.

Credo comunque che questa che stiamo vivendo oggi rappresenti un’occasione unica, una prova di convivenza fra popoli e culture diverse che devono imparare a vivere rispettandosi l’un l’altro, non per amore del nuovo, ma per necessità, per concretezza e coerenza. Perché non abbiamo alternative, se non quella di impegnarci da persone civili a costruire questa nuova società, la società multiculturale, che dev’essere voluta da tutti noi, progettata e perseguita.

Questo è il messaggio che ho cercato di trasmettere nella mia professione come giornalista e come mediatrice culturale, sia all’inizio con la trasmissione “Non solo Nero”, rubrica del Tg2 (1988/94), sia nella rivista l’Emigrato, e nella trasmissione radio RAI “Permesso di soggiorno” che ha tentato creare un ponte tra due mondi, in modo che si possa poi stabilire un dialogo che porti alla conoscenza dell’altro e alla sconfitta dei pregiudizi che stanno alla base dell’ignoranza dei popoli, e cercare di costruire insieme un mondo ed un futuro insieme e a benefico di entrambi. Spero che le generazioni dei capoverdiani e tutte le altre sappiamo cogliere ed arricchire questo messaggio che è anche un progetto di vita in pace non solo in Italia ma nel mondo.

Hai costituito insieme ad altri capoverdiani un’associazione Tabanka-onlus che si pone l’obiettivo di fare anche progetti di cooperazione. Che tipo di progetti senti sia utile avviare a partire dalla vostra originalità di persone della diaspora capoverdiana. Quale l’apporto originale che potete dare per disegnare una nuova cooperazione capace di tenere insieme il vostro bagaglio culturale e le vostre esperienze?

E’ una esperienza nuova questa che stiamo vivendo attraverso l’onlus Tabanka. Il nucleo è costituito soprattutto da giovani capoverdiani avidi di promuovere la cultura capoverdiana in Italia contribuendo cosi a contrastare il flusso di informazione denigratoria dell’Africa che la fa apparire agli occhi degli italiani un’immagine negativa e brutta dell’intero continente che gli africani riscontrano nei rapporti quotidiani con gli italiani. L’altra area che ci interessiamo è quella legata alla cooperazione con Capo Verde ed altri paesi d’Africa dove vivono parte della comunità capoverdiana in condizioni di povertà come in Angola, Mozambico, Guinea-Bissau e le isole di S. Tome e Principe. La novità del tipo di cooperazione che vogliamo sviluppare con l’Italia interessa soprattutto la nostra comunità immigrata in Italia che vogliono rientrare ma le condizioni economiche non permettono di realizzare il loro progetto nel paese d’origine. Si tratta di una immigrazione soprattutto femminile che vuole trovare il suo spazio all’interno delle economia del suo paese per poter partecipare attivamente al processo di sviluppo in atto a Capo Verde e riuscire allo stesso tempo a realizzare il loro progetto migratorio e soddisfare così i motivi che gli hanno spinti a lasciare il paese d’origine.

La novità e l’originalità di questa nuova domanda dell’immigrazione sta nel fatto che queste persone che hanno manifestato l’interesse nel ritornare nel loro paese d’origine sono consapevole che ormai dopo tanti anni di lavoro in Italia non sono riusciti a raggiungere il loro obiettivi ma sono determinati a portarli avanti e realizzare il loro progetto di vita nel loro paese d’origine.

Questa nuova prospettiva di vedere il proprio futuro rafforza ed incoraggia a noi di Tabanka, le istituzioni locali, le ONG e soprattutto il Ministero per la cooperazione ad attrezzarsi con i mezzi adeguati a rispondere a queste nuove domande di integrazione degli immigrati nel loro paesi d’origine attraverso una nuova forma di cooperazione che deve prevedere un’ulteriore finanziamento finalizzato ai progetti di rientro.

La posta in gioca è molto alta e deve essere così poiché a guadagnarci dei risultati di questa nuovo fenomeno che si sta piano piano emergendo è soprattutto l’Italia. I capoverdiani interessati sono persone che hanno una visione e una capacità e imprenditoriale che si è maturato e cambiato nel tempo. Una volta gli investimenti erano rivolti esclusivamente nel commercio, bar e ristorante per le donne nel trasporto, (taxi) per gli uomini. Oggi invece le richieste sono nell’aria di turismo, un turismo più civile, responsabile, ristoranti, abbigliamenti, artigianato e falegnamerie per gli uomini. In tutti questi progetti, oltre al now how appreso in Italia si riconoscerà nella realizzazione dei loro progetti anche la cultura italiana.

Durante Italia Africa alla Casa Internazionale delle Donne, hai raccontato al pubblico di Leopoldina Barreto, nota scrittrice, scultrice e pittrice della diaspora capoverdiana. Puoi dirci qualcosa di lei e di quello che rappresenta per il popolo, soprattutto le donne delle tue isole e dell’Africa?

Leopoldina Barreto, emigrata con il marito Josè Brito Barreto e i loro due figli in Svezia dove ha vissuto per più di 30 anni era ormai rientrata a Capo Verde nella sua e mia isola, S. Nicolau. Come quasi sempre succede in questi casi, i figli ormai molto bene inseriti nella società non hanno seguiti i genitori.

Come Tabanka onlus, avevamo deciso di invitare Leopoldina a partecipare a due incontri: uno a Roma nell’ambito della manifestazione Italia Africa ed un altro a Firenze nel mese di maggio. Purtroppo abbiamo perso, con molto dolore, l’opportunità di conoscere meglio questo grande artista capoverdiana.

Il motivo che ci ha spinti ad invitare lei e non un’altra persone era legato al fatto che lei rappresentava un esempio di inserimento riuscito ad alto livello e di grande successo. Non abbiamo nella diaspora, nessuna donna capoverdiana che è riuscita concentrare e a sviluppare tutti questi talenti.

E’ riuscita a seguire l’educazione dei suoi figli in una società con una cultura molto diversa dalla nostra ma senza che questi perdessero gli aspetti dell’identità culturale capoverdiano. Una è architetto e l’altro comandante delle compagnia aerea in Svezia.

Un altro tema che volevamo trattare con lei era quello dell’ esperienza legata al suo rientro a Capo Verde dopo 37 anni di immigrazione.

L’arrivo della Leopoldina a Roma era soprattutto per partecipare alla manifestazione Italia Africa. La sua presenza significava per tutti gli africani un’occasione per contribuire ancora una volta a sfatare questa immagine negativa dell’Africa. Attraverso l’esposizione dei suoi quadri e la presentazione dei suoi tre libri che ha pubblicato avremo potuto far conoscere la ricchissima letteratura capoverdiana con una forte impronta femminile che ci descrive la storia di questo paese attraverso la lotta per la sopravvivenza di una grande famiglia dell’isola di S. Nicolau, le origine mitiche di queste isole, l’emigrazione, le ingiustizie, le violenze, i costumi e la cultura di queste isole non risparmiando una dura critica alle conseguenze devastante di una società maschista dell’epoca sulle donne e nei rapporti con l’uomo che sottometteva la donna a tante umiliazioni annullando così la sua dignità come donna e come essere umano.

Leopoldina appartiene a quella categorie di donne speciale che troviamo in Africa e in tante altre parte del mondo che hanno saputo dare molto per migliorare questo mondo attraverso la loro passione per la scrittura e l’arte dove hanno utilizzato i diversi linguaggi che questo mestiere gli ha consentito per lanciare un messaggio universale che dobbiamo essere in grado non solo di cogliere ma anche di farli diventare i nostri punti di riferimenti importanti nella nostra scale dei valori.

Quale è oggi l’immagine dell’Africa e degli africani che è giusto dare attraverso i media?

Oggi in Italia si ha certamente una percezione diversa dell’Africa e degli africani. L’immagine stereotipata di un tempo è stata messa in discussione da una maggiore conoscenza diretta dei paesi, dall’incontro con gli immigrati di origine africana, e da una timida, ma sensibile apertura dei media.

Capita sempre più spesso di sentir parlare dell’Africa con correttezza e serietà, senza offendere la dignità di persone e paesi: soprattutto, bisogna dire, nei media non ufficiali, e in particolare in quelli gestiti direttamente dalla diaspora africana, che cominciano ad avere una certa consistenza: giornali, radio e televisioni private. Tutto questo, tuttavia, non è ancora sufficiente a contrastare il continuo flusso di informazione negativa dei mainstreaming media sull’Africa. Il tentativo di proporre un’immagine più positiva dell’Africa è costantemente frustrato dall’informazione sensazionalistica dei giornali e della televisione, che si occupano dell’Africa in maniera episodica, superficiale e quasi esclusivamente in occasione di eventi catastrofici: carestie, alluvioni, colpi di stato, conflitti armati. Basta un solo servizio imbevuto di stereotipi per annullare tutti i tentativi fatti per restituire all’Africa la sua immagine – che ci è stata rubata e deformata, molte volte anche agli occhi dei nostri stessi figli nati in Europa.

Alcuni potrebbero pensare che mostrare le piaghe economiche e sociali del nostro continente sia comunque utile per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale, ma questo è vero solo in parte.

Infatti, questo tipo di informazione non spiega le cause, le ragioni profonde di quello che accade: e più che veri sentimenti di solidarietà, finisce per provocare fastidio, o indurre atteggiamenti paternalistici che impediscono di riconoscere noi africani come cittadini del mondo globalizzato, con una nostra storia, una forte identità culturale, che ci ha permesso di sopravvivere e resistere alla schiavitù del passato, ai colonialismi vecchi e nuovi, e ai tentativi di strangolare il nostro sviluppo con le ristrutturazioni dell’economia mondiale.

E’ per quest’ Africa che oggi siamo qui e dobbiamo tutti fare qualcosa per contribuire al suo sviluppo integrato e preservare la sua dignità.

Dobbiamo proporre un’informazione più corretta, non episodica, non emergenziale, non più stereotipata. Dobbiamo far uscire l’Africa dalle pagine della cronaca per entrare nelle pagine della cultura. Dobbiamo elaborare un nuovo linguaggio, capace di rendere evidenti, con i problemi e le sfide, anche le soluzioni e i successi della nostra Africa. Dobbiamo rafforzare le nostre capacità di informazione, il ruolo che la diaspora – con i suoi propri mezzi di informazione e con la sua presenza nei grandi media occidentali – può avere per restituire all’Africa la sua immagine.

Fammi qualche esempio di come rafforzare l’informazione sull’Africa e gli africani

Sostenere e promuovere la diffusione e distribuzione delle opere africane: libri e giornali, ma soprattutto televisione e cinema. Il Festival del cinema africano di Milano, giunto ormai alla sua XVIII edizione, ha puntato non solo a presentare film e registi, ma anche a sostenere gli elementi più deboli della catena produttiva: il montaggio, la post produzione e la distribuzione.

Raccogliere, conservare e diffondere le opere di fiction e soprattutto di documentazione dei paesi africani. I film dei movimenti di liberazione degli anni ‘60, i video della lotta contro l’apartheid, le opere degli scrittori e dei registi africani. Il Museo del cinema di Torino sta lavorando a un progetto di gemellaggio con Ouagadougou, la città del Fespaco, per raccogliere e preservare, con la digitalizzazione, tutti i film passati al Fespaco in questi anni, che si stanno deteriorando sugli scaffali di un magazzino di Ouagà; e i documentari degli anni di Sankara, mai catalogati e riprodotti.

Sostenere i media autoprodotti e gestiti dagli immigrati africani in occidente: in Italia, per esempio, sono numerose le radio e le emittenti private; noi (con l’Archivio dell’immigrazione e le nostre associazioni) le abbiamo censite, e abbiamo realizzato progetti con le istituzioni italiane ed europee (Equal) per ottenere contributi e finanziamenti.

Sostenere gli operatori dei media africani in Italia in due direzioni.

Primo: riconoscimento della professionalità nei media italiani. Attualmente i giornalisti africani non possono diventare giornalisti professionisti perché non possono iscriversi all’Albo dell’Ordine dei giornalisti. L’iscrizione è esclusivamente riservata ai cittadini italiani. Dunque non possono fondare e tanto meno essere direttori di qualsiasi mezzo di comunicazione: tutti quelli esistenti in Italia sono di responsabilità di cittadini italiani’ anche se a lavorare sono giornalisti africani.

Utilizzare e valorizzare gli operatori della diaspora, in particolare i giornalisti e i tecnici africani: impiegarli come intermediari per raccogliere, preservare e diffondere i prodotti africani; appoggiarli per rendere sostenibili i loro progetti di film, documentari, riviste, programmi radiofonici qui in Europa; difendere e valorizzare la loro professionalità, che in alcuni paesi, come l’Italia, non è riconosciuta; e promuovere – anche attraverso una qualificata formazione – la loro presenza nei media europei.

Concludendo una migliore informazione non serve solo a noi, per promuovere un’immagine migliore dei nostri paesi: serve anche e soprattutto all’Europa e ai paesi industrializzati, per avere strumenti di comprensione, di arricchimento culturale, ma anche di vantaggio economico, di apertura di nuovi mercati, di acquisizione di partenariati utili a noi e a loro.

Insomma, parafrasando un grande uomo politico: non chiediamoci cosa possa fare l’Occidente per noi africani, chiediamoci cosa possiamo fare noi per migliorare i media europei, per proporre un’informazione migliore, per promuovere una cultura più aperta, per costruire insieme una società migliore.

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Info biografiche:
Laureata in Scienze dell’educazione nel 1991 presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Conduttrice nel 1988/1994 del programma televisivo su RAI TG2 “Non solo Nero”, interamente dedicato ai temi dell’immigrazione, corrispondente di RAI Africa, direttrice responsabile della rivista “Mondo Piceno”, dedicato agli immigrati di tutte le nazionalità. Dal 2015 corrispondente del programma Nacao Global per la Radio nazionale di Capo Verde. Autrice del libro “ Vengo da un’isola di Capo Verde” e coautrice di altre pubblicazioni e collaborazioni con Mondo Erre. Ha partecipato a Durban (Sud Africa) allaTerza conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”, ed a Johannesburg al Summit mondiale per lo sviluppo sostenibile ed ancora Vienna, Assisi, New York Pechino, ( Quarta conferenza mondiale sulle donne) Moltissimi premi per il suo impegno nella lotta contro la discriminazione sociale in favore degli immigrati e per la convivenza pacifica tra popoli di differenti culture, da ricordare Premio della critica della radio e televisione italiana concessa dalla RAI; Premio Colomba d’Oro per la Pace; Premio “Mustafà Souhir” alla carriera, COSPE, Firenze; Premio Città Sasso Marconi, per la Sezione “Premio per un giornalista operatore della comunicazione del Sud del Mondo distintosi nella lotta per la promozione dei diritti umani, dello sviluppo, della democrazia attraverso i media”; Premio Nelson Mandela indetto da UISP, Museo dell’Apartheid, Johannesburg; Medaglia al Merito di Prima classe, concesso dal presidente della Repubblica di Capo Verde. Jorge Carlos Fonseca. Presidente dell’Associazione Donne Capoverdiane in Italia, , e dell’Associazione Tabanka Onlus.