Nei primi giorni dello scorso febbraio gli organi di stampa hanno dato grande risalto alla notizia del finanziamento di 11 milioni di euro per il rilancio del centro storico di Palermo, arrivato attraverso il Piano Operativo Cultura e Turismo del governo nazionale. A darne ufficialità l’assessore regionale ai beni culturali e all’identità siciliana con un comunicato apparso nel sito istituzionale che a grandi caratteri afferma: “Portiamo a casa un risultato importante: con i fondi CIS la regione riuscirà a innovare la proposta museale della città”. Infatti, tiene a precisare l’assessore, tra gli interventi approvati, quello relativo al Museo Riso è il più importante, in quanto rappresenta “un grande progetto di rigenerazione urbana poiché realizza un raccordo permanente fra gli spazi museali e il centro storico cittadino, l’antico Cassaro che si apre su piazza Bologni, i cortili interni di Palazzo Belmonte Riso e la piazza Gran Cancelliere che si trova alle spalle del museo”.

Da qualche settimana circolano, però, ulteriori voci sul destino del Museo Riso. Noi abbiamo voluto verificarne la fondatezza entrando nelle pagine online dell’Assemblea regionale. Il DDL.n. 962 del 12 febbraio 2021 (Legge di stabilità 2021/2023) all’art. 85 mostra la volontà della Commissione Bilancio – che ha proposto il disegno di legge – di istituire la “Fondazione Riso”, attribuendo alla nuova struttura giuridica autonomia amministrativa, scientifica e finanziaria e trasferendo ad essa il palazzo e le collezioni di arte dell’attuale Museo Riso.

Alla luce di questa iniziativa parlamentare abbiamo ripreso in mano le fila della storia dell’antico palazzo Belmonte Riso, prospiciente la piazza Bologni lungo il corso principale del centro storico di Palermo, che ospita l’esposizione permanente di arte contemporanea della regione. Da questa dimora signorile nel maggio del 1815 uscivano alcune delle opere d’arte (quadri, disegni e stampe) di proprietà del principe di Belmonte trasferite nella Regia Università, all’interno della vicina sede del convento dei Teatini –  attuale facoltà di giurisprudenza –, per servire da modello ai giovani artisti secondo i desideri del principe, così riporta Giuseppe Meli nel 1872.

È bene osservare come il gesto di Giuseppe Emmanuele Ventimiglia, principe di Belmonte, sia stato un atto di liberalità, un dono alla collettività, niente a che vedere con alcune misure finanziare odierne come l’art-bonus – definita erogazione liberale – , che prevedono per le donazioni a favore dei beni culturali sgravi fiscale fino al 65%. La munificenza di Belmonte diede l’avvio, per emulazione, ad altre donazioni da parte di esponenti illustri dell’aristocrazia palermitana, tantoché quella prima elargizione a favore della cultura è considerata all’unanimità il primo atto per la creazione delle pubbliche raccolte  d’arte nella città di Palermo, che, trasferite nel corso dell’Ottocento presso il convento dei padri filippini all’Olivella, integrate e arricchite con migliaia di altri oggetti storici e storico-artistici delle più diverse categorie – soprattutto con l’avvento alla direzione del Museo di Palermo di Antonino Salinas – nel corso del Novecento confluirono nei più importanti musei di Palermo. Il senso civico del principe di Belmonte è testimoniato, d’altra parte, dalla sua partecipazione alla redazione della costituzione del 1812, che, su modello inglese, segnò in Sicilia “l’abolizione dei feudi e delle giurisdizioni feudali”.

Nonostante il prestigio di Giuseppe Emmanuele Ventimiglia, al momento dell’istituzione del Museo regionale di arte moderna e contemporanea, realizzato all’interno della dimora del principe di Belmonte, l’amministrazione decideva di utilizzare il secondo nome dell’edificio monumentale per identificare il sito  museale, cosicché oggi sia il Museo che il palazzo vengono indicati con il nome Riso.

Per sapere chi fossero stati i Riso al loro ingresso nella storia della città nel corso dell’Ottocento ci rivolgiamo allo storico Orazio Cancila che nel volume su I Florio racconta come Giovanni Riso da “convittore orfano e bisognoso del Seminario Nautico “era diventato “uno dei più abili finanzieri della città”, tanto da avere acquisito, ovvero acquistato, il titolo di barone. In particolare Cancila cita Pasquale Calvi – uno dei protagonisti della rivoluzione siciliana del 1848 – che addita Giovanni Riso quale “pirata”,“abominevole estortore” e “feroce pubblicano”. Infatti, l’origine della fortuna della famiglia Riso –  spiega ancora Cancila –  con ogni probabilità deve riferirsi “all’esercizio della guerra di corsa antibarbaresca (…) oltre all’appalto della riscossione delle imposte indirette” di Giovanni, un uomo che molti oggi considererebbero di successo ma che nulla ebbe del senso civico e della magnanimità del principe Belmonte. Alla sua morte il  figlio Pietro diveniva “uno degli uomini più ricchi della città” e impiegava, nel 1842, parte del patrimonio nell’acquisto “dello splendido palazzo sulla via Toledo (attuale corso Vittorio Emanuele) che alla fine del Settecento il principe di Belmonte aveva fatto costruire su progetto del noto architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia”.

Nel 2005 nell’assegnare il nome al Museo regionale d’arte moderna e contemporanea, l’amministrazione regionale avrà pensato che “riso” fosse parola più sintetica, breve, orecchiabile, allegra e appetitosa insomma più cool rispetto a “belmonte”. Tuttavia dinanzi all’art. 85 del disegno di legge in discussione in questi giorni nel parlamento siciliano, non possiamo non considerare che il nome degli esattori Riso si presti meglio a una Fondazione svincolata dal regime pubblicistico e basata prioritariamente su risultati di economicità anziché culturali e didattico-formativi in linea con le finalità della donazione del Belmonte e l’azione di Salinas presso il Museo di Palermo, obiettivi fondamentali oggi perseguiti  dal Museo Riso mediante piani di educazione all’arte rivolti al territorio e in particolare alle scuole ed erogati in totale gratuità.

Meraviglia, tuttavia, come un intervento così importate non abbia avuto, sin qui, alcuna eco nella cronaca della città e l’iniziativa parlamentare stia passando sotto silenzio. D’altra parte leggendo gli atti parlamentari pubblicati online dall’ARS abbiamo potuto constatare come anche all’interno della V Commissione Cultura, che ha passato al vaglio il disegno di legge nella seduta del 24 febbraio scorso, nessun componente abbia rilevato alcunché in merito alla nuova versione giuridica istituzionale del Museo Riso.

Nel riprendere le fila della storia del palazzo Belmonte Riso noi abbiamo potuto verificare un ultimo dato importante e cioè che questo monumento non si pone solo come prestigioso edificio nella città antica, fondale architettonico di una delle piazze più belle di Palermo, ma anche come uno di quei luoghi in cui il potere mostra il proprio volto. A tal proposito è doveroso riportare la pagina più nera e disonorevole della storia dell’elegante e prestigiosa dimora del principe di Belmonte, ovvero quando nel 1933 venne affittata come Casa del Fascio, deturpata e trasformata nel macabro “sacrario” della dittatura fascista, prima di soccombere sotto i bombardamenti degli americani nel 1943.

Il nuovo status che si vorrebbe dare oggi al Museo regionale di arte moderna e contemporanea e quindi anche il destino di palazzo Belmonte Riso – acquistato nel 1986 dalla regione siciliana che lo ha restaurato e reso nuovamente fruibile – , come l’applicazione della Carta di Catania, rischiano di assestare un duro colpo alla gestione pubblica dei beni culturali in Sicilia mentre non offrono la possibilità di un serio dibattito sul futuro della rete comune dei beni culturali.

Noi di Pressenza abbiamo avviato una breve inchiesta  chiedendo  a diverse realtà associative e sindacali rappresentative che operano nella città, di esprimere il proprio punto di vista in merito alla vicenda.

Per il Comitato Beni Comuni “Stefano Rodotà” di Palermo  Alberto Mangano ha dichiarato: « Noi non siamo contrari alla rigenerazione urbana del tessuto cittadino. Anzi, preferiamo parlare di bio-rigenerazione, in senso complessivo economico, sociale ed istituzionale, promuovendo nuove forme di cittadinanza attiva con istanze partecipative dal basso. Ciò significa coinvolgere la società in processi di condivisione nell’interesse generale e soprattutto ecologicamente sostenibili». Inoltre, tiene a precisare l’esponente del movimento sui beni comuni: «Non siamo pregiudizialmente contrari alle Fondazioni, ma nello specifico del Museo Riso (così come per tutti i presidi culturali pubblici o a rilevanza universale) non ne comprendiamo la necessità, tanto più che negli ultimi anni il sito museale Riso è stato rilanciato, radicandosi nel territorio». 

Anche dal fronte sindacale giungono critiche sulla iniziativa legislativa e perplessità sia di ordine metodologico sia di merito: «Non possiamo stare più ad assistere al sistematico processo di privatizzazione delle funzioni pubblicistiche che svuota continuamente l’azione amministrativa dai compiti istituzionali fondamentali a cui è preposta la “macchina regionale”». Così si è espresso il segretario generale della FP CGIL-Sicilia, Gaetano Agliozzo. «Prima la Carta di Catania, con la quale si intenderebbero svuotare i preziosi depositi museali, adesso le Fondazioni, con le quali si intenderebbe de facto sostituire i lavoratori pubblici dalla loro mission e che sono anche garanzia di democrazia a servizio della collettività. Le Fondazioni – prosegue Agliozzo –  ancorché costituite da soggetti pubblici e non finalizzate a scopo di lucro, sono gestite secondo regole e modalità del regime privatistico, sovrapponendosi a quelli che sono i servizi pubblici cui l’amministrazione regionale è tenuta ad adempiere. Senza contare che molto spesso, con la scusa della formazione professionale le Fondazioni si avvalgono di lavoro gratuito (stagisti) o sottopagato (volontariato rimborsato), svolgendo di fatto un’azione di dumping salariale nel mercato del lavoro degli specialisti dei beni culturali».

In ultimo abbiamo sentito Maurizio Bongiovanni, della confederazione CUB-Sicilia, il sindacato che in questi mesi ha organizzato la mobilitazione di precari e disoccupati: «Negli incontri con le autorità pubbliche abbiamo rappresentato il dramma occupazionale che attraversa la città, chiedendo alle rappresentanze istituzionali di attivare un nuovo modello di sviluppo, volto a superare i limiti del sistema attuale basato sulla centralità dell’Impresa privata. Bisogna puntare sulla messa in sicurezza del patrimonio comune delle “grandi infrastrutture” culturali  ed ambientali. Piuttosto che a Fondazioni che possono blindare il progetto di rigenerazione urbana, sottraendolo alla socializzazione, bisogna puntare sulla ri-fondazione della centralità delle istituzioni pubbliche che privilegino quanto più possibile il lavoro diretto senza intermediazioni».

In qualche modo ci sembra che fra i nostri interlocutori via sia una convergenza critica che richiama il concetto associativo che nel lavoro comune costituisce la base del patrimonio collettivo sociale.

 

kappagi