A cura di Gigi Eusebi

Sono stato indirettamente coinvolto, per foto pubblicate dal quotidiano La Stampa durante turni di consegne pasti nelle attività di volontariato che svolgiamo da anni in città. Riflessioni su alcuni punti degli articoli e dei comunicati delle associazioni

Affermare che la vita di strada si può rivelare comoda, che può costituire fonte di reddito o almeno di acquisizione di denaro facile, oltre che grottesco, degno di rimozione dall’incarico per chi come il capo della polizia municipale di Torino svolge mansioni direttive in settori che dovrebbero tutelare la popolazione, è soprattutto – tecnicamente parlando – una “vaccata”. Sia per chi dice tali cose sia per chi in modo premeditato e strumentale le pubblica. Certe affermazioni date in pasto al lettore medio turineis de La Stampa, platea composta in parte da classe media, benpensanti, madamine, pensionati con posto fisso al bar (varianti sociologiche in salsa subalpina della mitica “casalinga di Voghera” di Nanni Moretti…), possono provocare ulteriori disagi ed esclusione a chi già combatte una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Li chiamiamo senzatetto, senza fissa dimora, barboni, homeless, clochard, quando prima di tutto sono persone, con una storia, un passato, un presente e, insh’allah, un futuro.

Nella genesi delle storie di vita di strada vi sono spesso diritti universali di cittadinanza non concessi, problemi di salute, lavoro, abitazione. A ciò si affiancano fragilità individuali che non reggono il confronto e l’esclusione dal consesso dei “normali”, di un’organizzazione sociale che separa sempre più i “salvati” dai “sommersi”, per citare Primo Levi. Riportando stralci dell’ottimo comunicato dell’Associazione Opportunanda, a commento degli articoli:

Quando ti ritrovi per strada per sopravvivere devi in qualche modo riprogrammarti; fare la fila per elemosinare un posto in dormitorio, nella speranza che quella sera ci sia un posto, che comunque sarà provvisorio; fare la fila alle mense per elemosinare un pasto, abituarti a saltare spesso la cena; fare la fila per elemosinare dei vestiti che non ti facciano sentire un “barbone”, finchè pur di combattere il freddo ti metti addosso qualsiasi cosa; fare la fila per elemosinare una doccia e per trovare un posto riparato dove passare la giornata, con magari l’obbligo di stare a casa quando c’è il Covid. Di posti dove passare la giornata a Torino ce ne sono due o tre al massimo, tutti privati. Diventa un randagismo urbano che ti sfinisce, ti abbruttisce, “la strada ti entra dentro” e farla uscire diventa difficile”.

Il comunicato della “difesa”, pur citandomi come parte lesa, ovvero come uno dei due soggetti non consenzienti della foto a mezza pagina pubblicata (in realtà era stata scattata ed usata per un pezzo dell’11 dicembre, scritto e illustrato da giornalisti che ci avevano affiancato in un turno serale di distribuzione pasti), non “graffia” sugli aspetti qualificanti della questione. Il punto più critico non è l’aver riciclato una foto d’archivio a fini redazionali ma aver perseguito in modo premeditato l’ennesima forma di giornalismo spazzatura, che affronta in modo improprio, incompetente, scandalista temi di enorme complessità su cui nessuno, dai diretti interessati agli operatori del settore, ha soluzioni certe. Fra gli svariati paragoni, italiani e mondiali, ho ripensato agli slogan ad effetto tipo i “taxi del mare” e i “migranti in villeggiatura”, con cui il duo Salvini-Di Maio un paio di anni fa apostrofava l’operato delle navi delle Ong nel Mediterraneo

Suggerirei al grancapo della polizia municipale torinese Bezzon, autore principale della “prodezza” ed ai giornalisti della redazione (se trovasse posto in coda nell’affollata “reception” dell’Hotel Homeless anche alla vice-sindaca Schellino…), di passare una notte, una sola notte invernale, dormendo per terra vicino ai senza fissa dimora. Nel caso dovessero sopravvivere verificherebbero quanto sia lucrativo, economicamente, fisicamente, psicologicamente “prenotare” una suite con aria fresca, vista strada, piano marciapiede, nel centro città…

A chi legge gli articoli de «La Stampa» di fine gennaio propongo il confronto da… abbonato in prima fila: fresco dopo un turno serale, nel quale ho distribuito una ventina di pasti cucinati da Guarda Oltre in tre zone del centro (con persino dessert di mousse alla panna, schiccheria…).
Il ragazzo in mutande di cui si (s)parla in uno degli articoli è ghanese, si esprime solo in inglese, da un mese staziona giorno e notte, scalzo, su una panchina di via Cernaia, per coprirsi usa un vecchio copriletto, pur con i -7 gradi di alcune notti di gennaio. Ogni volta che passo mi chiedo come riesca a sopravvivere. Qualcuno dei suoi “colleghi” dice che ogni tanto rubacchia, in media rifiuta qualunque approccio; per noi è stato un successo che da qualche settimana accetti almeno il cibo serale che inizialmente non voleva, cacciando a “fuck you” chiunque si avvicinasse. Stasera ero solo, ormai sa chi sono, in bici con il cibo passiamo in pochi, ho provato a parlargli visto che era seduto e non sdraiato come sempre. Il cibo lo ha preso con mucho gusto, gli ho chiesto se stesse decentemente, e lui per la prima volta ha… comunicato. Ha detto che avrebbe bisogno di un sostegno per gli occhi, non solo per due, ma “for 3 eyes” (svelato il mistero del terzo occhio…?). Glielo ho fatto ripetere più volte, pensavo non avessi capito bene, non parla un inglese esattamente oxfordiano. Cercava degli occhiali? “No”. Delle gocce o un collirio? “No”. Un oculista? “No”. Ho detto che avrei provavo a cercare qualcuno che parlasse wolof o una lingua a lui più familiare. “Che fuck dici, ti sto parlando in un inglissccc corretto, ciò che mi serve è scratch for my eyes (letteralmente grattino per gli occhi)”. Ho balbettato: “vedrò cosa riesco a fare” …

In uno degli articoli meno fetenti, si parla di Maria, salernitana a volte logorroica che “frequento” da un anno. La sua storia è abbastanza correttamente raccontata: le sue urgenze del momento sarebbero sgomberare il monolocale dove viveva con il marito defunto da tempo, spazio pieno di cose in parte da buttare in parte da salvare, capire se e a quali misure di reddito potrebbe accedere (la Comunità di S. Egidio le aveva promesso di occuparsene), trovare un riparo notturno che sia meno distante dal centro città rispetto all’attuale location di Moncalieri (cintura di Torino). Ha un accordo con una coppia di anziani che le danno un letto ma nulla più. Maria non sta benissimo, è relativamente anziana, due ore di bus ogni giorno, oltre alle 10/12 ore quotidiane passate al freddo seduta in strada, le pesano. Si posiziona quasi sempre di fianco al teatro Regio, che da quando è chiuso diffonde nei pressi degli ingressi arie di brani di musica classica ed opere. “La musica mi tiene compagnia”, sorride Maria.
Alcune delle cose che indossa, a strati per ripararsi dalle temperature invernali, vestiti in buone condizioni e non malmessi come si dice nell’articolo, arrivano anche da mia sorella e da amiche solidali. Ogni tanto le faccio un bucato e le stiro la biancheria, però porta con pudore da pulire solo roba bianca perché le cose colorate se le lava da sé; le piacciono in particolare dolci e frutta, quando possibile la riforniamo. E’ una delle persone all’apparenza più “normali” del circuito, anche se quando comincia a parlare non la fermi più e tende a dire sempre le stesse cose. Ma non andrà mai in un dormitorio o struttura pubblica tipo i container invernali periferici di via Traves ideati in questo inverno dall’assessorato di Sonia Schellino, vicesindaca con delega alle politiche sociali, a fine mandato, la quale non si capisce se sia più incompetente o arrogante. Viene da una “carriera” in campo sociale con la Fondazione San Paolo e per questo è convinta di saperla lunga e di non ascoltare chi si muove ogni notte sul territorio e magari non appartiene alla schiera dei partner storici della Città del terzo settore locale. Persino l’arcivescovo di Torino, un moderato che si chiama Cesare Nosiglia e non sub-comandante Marcos, ha definito questi spazi freddi e di scomodo accesso serale, nei pressi del periferico stadio della Juventus, “più adatti alle bestie che agli umani”.

Spesso prima di addormentarmi al caldo del mio letto ripenso a tanti quasi “amici” di strada: Gabriele, l’intellettuale della truppa, che vanterebbe parentele nobili, che millanta eredità milionarie da riscuotere in Francia, con appresso pile di libri vicino a trolley pieni di vestiti e cibo, che legge un romanzo al dì. Methodi, bulgaro spesso alticcio che la prima volta che ci siamo visti ha provato a rubarmi la bicicletta; è un agricoltore, ogni tanto riesce a strappare qualche settimana di lavoro nei campi per la vendemmia o la raccolta di pomodori, da mesi vive con ascessi ai denti continui che non riesce a curare, se non con il doping da alcool. Pedro, carioca di Rio de Janeiro, fisico da capoeira, che vive apparentemente sereno, senza documenti né accumulo di cibo o vestiti. Cosetta, ex-modella e impiegata in aziende sanitarie, accanita fumatrice con problemi alla schiena, presente a sé stessa; fin troppo, visto che durante il primo lockdown mi aveva “sfanculato” per preoccuparmi troppo di lei; “Tanto non durerò molto”, aveva chiosato congedandosi. Roxana, alias Kati, alias Janet (dà nomi diversi a seconda dell’interlocutore o volontario di turno), ecuatoriana minuta senza un polmone, che ha cose sue sparse per mezza città, alcuni borsoni pieni di qualunque cosa hanno soggiornato sul mio balcone per mesi; tende a non dire (quasi) mai la verità, forse non sa chi è veramente, non si è capito nemmeno da quanto tempo sia in Italia, lei dice da meno di un anno ma la padronanza della lingua italiana ed uno spagnolo poco fluido sembrano rivelare una presenza più datata. Juàn Pablo, porteno di Buenos Aires, “fuori” come un balcone, distinto signore che non appena incrocia qualcuno inizia discorsi autistici nella sua lingua, dove illustra le sue competenze professionali nei settori dell’ingegneria ed estrazione mineraria; non importa che lo si ascolti o meno, che si provi a rispondere qualcosa; Juan Pablo tira dritto e continua a parlare, parlare, parlare; ma non manca mai di salutare con rispetto ringraziando per anche solo un piccolo panino o frutto. Gruppetti di maghrebini che si ritrovano ogni sera in vari quartieri della città, facendo crocchio e condividendo in modo solidale quanto eventualmente raccolto oltre che le esperienze della giornata. Come nella loro cultura sono attenti ai bisogni degli altri compagni, condividono il cibo, ogni tanto se ne vede qualcuno intento a compiere l’atto di una delle cinque preghiere quotidiane della religione musulmana, riescono sempre a posizionare i tappetini in direzione della Mecca, e se gli chiedi se anche oggi hanno mangiato ti rispondono “Na’am, Al-hamdulillah!” (Sì, secondo la volontà di Dio).
Amalia, pingue rumena con infiniti problemi di infiammazione a pelle ed unghie, infermiera di professione (al punto che ogni volta presenta una lista di costosi farmaci che le servirebbero degne di un farmacista provetto); ogni tanto, specie se riesce a lavarsi in qualche bagno pubblico, trova piccoli incarichi da badante. Mi sono commosso la notte di Natale, quando portandole la cena speciale della festa, a base di un tradizionale piatto venezuelano natalizio – hallaca – confezionato dentro foglie di banano dai creativi chef volontari di Guarda Oltre, dormiva in un materasso ad una piazza e mezza con la schiena appoggiata al muro, stringendo al petto tra le mani una grande scatola. Si trattava del regalo di Natale, piuttosto kitch, che aveva comprato per la figlia adolescente che non vede da anni (probabilmente le è stata tolta e non si sa se sia ancora nei paraggi), e che proteggeva per non farselo rubare.

Nemmeno su numeri e dimensioni del fenomeno dei senza fissa dimora c’è chiarezza, da anni, indipendentemente dal colore politico delle amministrazioni di turno, la tendenza è sottostimare la realtà, anche per la dinamica continua di movimenti e spostamenti. Forze dell’ordine e Assessorati raramente riportano valori superiori a qualche centinaio di unità totali in città, mentre diverse ricerche svolte tra il 2010 ed il 2018, alcune paradossalmente commissionate dallo stesso Consiglio Comunale di Torino, arrivavano a totalizzare circa 2.000 persone. Nel nostro piccolo, durante il primo lockdown avevamo provato a svolgere una mappatura del centro e di alcuni “focolai” strategici, come la nota e triste vicenda di piazza d’Armi e dello sgombero di inizio maggio 2020 (cfr. articoli scritti in quell’occasione), e limitatamente ai quartieri centrali risultavano esserci circa 250-300 persone.

Solo sul punto del donare soldi facili potrei trovarmi parzialmente concorde con poliziotto e vice-sindaca, se l’analisi fosse svolta in modo più professionale e soprattutto empatico. Molte persone senzatetto non sanno gestire denaro e spesso se lo bevono o fumano. Qualcuno ogni tanto sparisce, cambia location se non città/regione, qualche volta quando si mettono insieme 20-30€ si decide di passare un paio di notti “pe’ ripijasse” in una stanza economica in pensioncine sgarrupate vicino alla stazione, purtroppo non poche persone soffrono di patologie a volte gravi, quasi mai curate correttamente. Anche su abiti e cibo a volte scarseggia “cognisiùn”, per usare un piemontesismo: un po’ perché spesso passano vigili and similar a prendere e buttare via tutto anche in modo aggressivo, richiamati da abitanti della zona, per salvare il decoro urbano; un po’ perché tendenzialmente chi vive in strada tende a dare poco valore alle cose donate, perfino anche a quelle che ogni tanto essi stessi si comprano con gli spiccioli raggranellati con l’elemosina. Ho perso il conto di quanti cellulari di prima e seconda mano ho distribuito nell’ultimo anno, per dare possibilità di comunicazione o intrattenimento (in diversi punti del centro esiste un intermittente accesso al free wifi), oggetti regolarmente persi, rubati, bagnati, distrutti, o presi da polizia e vigili durante gli sgomberi.

Ogni storia è una storia, c’è di tutto. Sulla strada come fra i “normali” esistono delle specie di caste, in qualche caso con episodi di competizione e violenze, o al contrario con manifestazioni di solidarietà di “classe”. A seconda che il senzatetto sia italiano o straniero, con carta d’identità, passaporto, qualche forma di reddito di emergenza o cittadinanza oppure, per dirla alla latinoamericana, indocumentado (privo di documenti), comunitario o extra-UE, giovane o anziano, in discrete condizioni di salute o con patologie non curate, presenze in strada di lungo corso o di recente arrivo, con storie pregresse legate a dipendenze varie o “soggetti” come noi, del tutto simili ai vicini della porta accanto, che in poche settimane hanno perso lavoro, casa, famiglia. Donne, uomini, coppie, trans, ecc. Soli, depressi o confusi.

Come diceva Bergoglio a inizio papato a proposito dei gay?
“E chi sono io per giudicare!”.
Amen