Ci sono luoghi in cui da quasi 30 anni si costruisce un pezzo di futuro, che poi diventa presente e innesca cambiamenti in tutto lo stivale. Tra questi troviamo Torri Superiore, un antico borgo recuperato nell’estremo ponente ligure, quasi in Francia: un ecovillaggio unico nel suo genere, che ha ospitato i primi corsi di permacultura e contribuito in modo determinante alla diffusione della facilitazione. E molto molto altro ancora.

La vita è piena di paradossi. Quando ho iniziato il mio viaggio nell’Italia che Cambia, nel settembre 2012, sono partito da un piccolo paese dell’entroterra ligure, a pochi chilometri da Ventimiglia. Ho esplorato letteralmente tutta Italia, regione per regione, provincia per provincia. Ma non sono stato a Torri Superiore. In Sardegna ho partecipato alla plenaria di permacultura e ho reincontrato Massimo Candela, uno dei pionieri di Torri Superiore che era stato anche mio insegnante nel corso base di permacultura nel 2010. Ma non l’ho intervistato. Poi mi sono trasferito nel suddetto paesino, Alto, ho avuto modo di visitare Torri come “comune cittadino” ma neanche in quell’occasione ho realizzato la famosa “storia” di questo storico ecovillaggio. E così ci voleva la nascita del portale Liguria che Cambia perché finalmente colmassi questa imperdonabile mancanza. Ed eccomi qui, finalmente, a proporvi una delle più importanti esperienze italiane di questo settore.

Torri Superiore, infatti, è un ecovillaggio sui generis. Prima di tutto ha la caratteristica di non essere sorto in case di paglia costruite in mezzo alle colline, in qualche iurta montata in pianura o in ruderi recuperati in cima ad una montagna, bensì in un vecchio borgo recuperato dall’abbandono e ristrutturato casa per casa. Poi ha il pregio di essere un’esperienza decennale. E, infine, oltre ad offrire ricezione turistica, corsi di tutti i tipi, agricoltura sana e mille attività, ha il privilegio di aver ospitato i primi corsi di permacultura in Italia e di aver contribuito alla diffusione della facilitazione.

I pionieri

Nel video che qui vi proponiamo è ben riassunta la storia di questi luoghi e i passi che hanno portato alla nascita nel 1989 dell’associazione culturale fondata da Piero e Gianna. Ci sono voluti più di dieci anni perché il sogno dei pionieri, tra cui Massimo Candela e Lucilla Borio, diventasse realtà e i primi abitanti cominciassero almeno a vivere con costanza nell’ex rudere.

Racconta Massimo: «Vivere qui era una grande sfida, perché era un cumulo di macerie. Ricordo che nel ‘93 mi capitava di rimanere a dormire qui da solo… quando realizzavo che intorno a me c’erano 160 stanze vuote accendevo la luce! Era freddo, pioveva nelle case, ma in quella energia lì andava tutto bene. Ci sono cose che prima le fai e solo dopo le razionalizzi, le elabori, ti fai domande».

Gli obiettivi iniziali erano chiari: ristrutturare, trasferirsi, creare una comunità residente, creare una economia per questa comunità e avere un centro culturale aperto all’esterno, rimanendo legati al mondo dell’associazionismo, del volontariato, dei diritti umani. Paradossalmente le cose si sono complicate quando – quasi 25 anni dopo – questa fase è terminata e si sono chiesti come proseguire.

La struttura: un modello “pubblico/privato”

Come abbiamo visto il recupero del paese era considerato quasi come un’utopia irraggiungibile. Ma venti anni dopo è stata completata e oggi ci sono 162 vani ristrutturati, divisi in appartamenti privati e spazi condivisi gestiti dall’associazione. Il processo è stato lungo anche perché la proprietà era frammentata tra decine di proprietari.

«L’associazione nasceva con l’idea di trovare un equilibrio tra il mondo che si era brevemente assaggiato prima che svanisse (l’esperienza del tutto comune) e il mondo in cui si viveva in quel momento in cui tutto era privato», ci confida Massimo. E se trovare i capitali per acquistare e ristrutturare la parte privata è stato abbastanza facile grazie ai capitali personali dei diversi abitanti, la ristrutturazione della parte comune è stata la grande scommessa: «Abbiamo cercato finanziamenti che non sono arrivati, nessuno di noi era ricco, dovevamo guadagnarci quindi i soldi per ristrutturare; per questo creammo una cooperativa e ci dedicammo al turismo, all’accoglienza, ai corsi e all’agricoltura. Nella cooperativa entrarono soci che finanziavano la cooperativa e altri che avevano l’idea di lavorare a tempo pieno nel settore turistico».

Oggi esiste ancora l’associazione che ha fondato Torri Superiore e gestisce gli spazi comuni in cui si svolgono le discussioni e gli incontri. Inoltre, è proprietaria di metà paese. La cooperativa sociale di comunità, invece, gestisce le attività turistiche e ricettive. L’associazione è composta da soci residenti e non residenti e dalla dinamica reciprocamente arricchente che si sviluppa tra queste due componenti.

Gli abitanti e le relazioni con la valle

«Oggi siamo 20-24 unità, adulti e bambini. I residenti di Torri sono responsabili della propria economia, gli stipendi sono personali e privati, ma una parte di questi viene destinata ad una cassa comune necessaria al mantenimento degli spazi condivisi, alla mensa e alle spese di sostentamento di tutta la struttura, riscaldamento, acqua, energia. La quota è di 255 euro a testa. Mangiamo insieme a colazione, pranzo e cena da oltre 30 anni. Tutto è nato intorno alla tavola! Con il Covid per la prima volta abbiamo mangiato nei vari appartamenti.

Ognuno è responsabile del proprio stipendio, qualcuno lavora in cooperativa ed è a libro paga, altri lavorano sulla costa o altrove. In questo modo le persone possono scegliere singolarmente se avere una vita con più tempo libero ma più fragilità economica, o un lavoro fisso e più sicurezza economica, e non abbiamo dovuto affrontare insieme cosa fosse giusto o sbagliato per questo posto».

Il paese limitrofo, dopo anni di studio ha accettato la comunità di Torri Superiore: «Vengono a mangiare qui, a festeggiare matrimoni e compleanni, ma non è scontato. Non dobbiamo mai dimenticare che quando ci trasferiamo in una valle o in un centro extra-urbano entriamo comunque in una zona abitata. L’Italia è sovrappopolata e tu entri quindi quasi inevitabilmente nel territorio di altri. Devi progettare una integrazione, non puoi aspettare che accada, le cose non accadono, le dinamiche che non curi sono involutive, devi mettere attenzione e studiare il linguaggio, sviluppando capacità di comunicare».

Per la comunità di Torri, più che incontri pubblici e annunci in piazza, sono stati fondamentali gli orti e i cantieri. Attraverso di essi hanno creato una relazione con il paese, hanno trovato argomenti di conversazione.

Il futuro

«Questo anno si è inserita nella comunità di Torri Superiore Francesca (che abbiamo incontrato, ndr) con due bambine. È stato bello – mi confida Massimo – i nostri figli erano tutti grandi ed è stato bello tornare ad avere dei bambini nella quotidianità».

I figli. I figli ad un certo punto se ne vanno, diretti a Berlino (sempre in comunità) o verso altre città. «L’infanzia qui a Torri è stupenda – afferma Massimo – elementari e medie perfette. Poi arriva l’adolescenza e i giovani, giustamente, sentono il richiamo della riviera e delle grandi città». Ma così come i giovani di Torri sognano la riviera esiste anche un processo inverso! «Gli amici dei nostri figli ogni tanto vogliono venire qui. Non tanto per divertirsi, perché qui non è luogo adatto, ma c’è un giro di amici che crescendo sono diventati volontari di Torri, trovandosi nei turni di pulizia e aiutando a servire a tavola».

Prima di salutare Massimo gli chiedo se consiglierebbe ad altri giovani un percorso come quello che ha fatto lui in questi anni. «Di sicuro è possibile farlo, ma ci vuole molto pragmatismo e molta formazione. Progetti come questo richiedono sforzi davvero ingenti che non possono essere vanificati dal fatto di essere stati troppo naif in questo o quel dettaglio, però sì è possibile… tutto è possibile».

Non resta che guardare il video! A questo link trovate l’intervista integrale a Massimo Candela.

Scritto da: Daniel Tarozzi

Riprese di: Daniel Tarozzi

Montaggio di: Paolo Cignini

 

L’articolo originale può essere letto qui