Pubblichiamo il diario dei primi giorni a bordo della Bamboo che ospita l’équipe della campagna Mediterraneo Mare di Pace, percorso marittimo della Seconda Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che chiede il disarmo e la creazione di un’area libera da armi nucleari per il Mare Nostrum.

27 ottobre – Alle 18 la Bamboo, la barca della Fondazione Exodus che ospita l’equipaggio di Mediterraneo Mare di pace, molla gli ormeggi e lascia Genova. Destinazione: Marsiglia, prima tappa del percorso via mare della Seconda Marcia mondiale per la pace e la nonviolenza.

Un tramonto dorato illumina la Lanterna, il faro che da 800 anni guida le navi dentro e fuori il porto. La luce che avvolge la città ci sembra un segno di buon auspicio per questo viaggio nel Mediterraneo occidentale e meridionale, che negli ultimi anni, sembra aver dimenticato la propria anima.

Le antiche civiltà lo chiamavano il Grande Mare, per il romani era il Mare Nostrum, per gli arabi e i turchi era il Mare Bianco, per gli Egizi il Grande Verde. Un mare fra le terre che nel corso dei millenni è stata la via che ha unito e fatto incontrare civiltà, culture, uomini. Un mare che da qualche anno è diventato teatro di tragedie immani: decine di migliaia di persone sono prigioniere nei campi libici, veri e propri lager dove subiscono violenze stupri e torture. Solo chi può pagare riesce a partire e a prendere il mare, sperando di non essere intercettato dalla sedicente Guardia Costiera libica e riportato all’inferno. Una Guardia Costiera finanziata con soldi italiani e europei grazie a un accordo che tra pochi giorni sarà rinnovato.

Solo quest’anno più di 63 mila persone hanno rischiato la vita per raggiungere le sponde europee alla ricerca di una speranza. Si stima che i morti in mare siano stati 1.028. Morti che pesano sulle coscienze di tutti, di cui però è troppo facile dimenticarsi. Ci siamo abituati ai bollettini delle morti, dei salvataggi, dei respingimenti. Facile dimenticarsi delle sofferenze, basta girare la testa dall’altra parte. E se sei sulla terraferma, comodamente seduto in poltrona, quelle tragedie non riesci nemmeno a immaginarle.

Ma qui sulla Bamboo mentre scende la notte, anche se il mare è tranquillo (poca onda, poco vento, procediamo a motore) e si intravedono ancora le luci della costa, il primo pensiero è per quelle persone, donne, uomini e bambini che, magari proprio adesso, sulla sponda sud del Grande Mare stanno prendendo il largo su gommoni o barchini di legno malridotti. Uomini, donne e bambini stipati su precarie imbarcazioni oltre l’inverosimile insieme alle loro speranze di una vita migliore. Bisogna esserci stati in mare di notte per capire che cosa possono provare queste persone, che quasi sempre arrivano da luoghi lontani dalla costa. Pensiamo a loro e alla loro paura mentre avvolti dal buio scrutano l’orizzonte nella speranza che qualcuno arrivi a soccorrerli per portarli in un porto sicuro. Pensiamo anche alle persone sulla Ocean Viking, una delle poche navi umanitarie ancora in navigazione, che aspettano da giorni di poter sbarcare in porto sicuro. Come si possono trattare così degli esseri umani? Come può tutto questo lasciarci indifferenti? Vi lanciamo questa domanda attraverso le onde. Pensateci.

Alle 4 del mattino si alza un vento leggero. Issiamo le vele e procediamo.

Foto: Bamboo, la barca della Fondazione Exodus a Genova, ormeggiata davanti al Galata Mu. Ma, museo del mare e delle migrazioni, uno dei più importanti musei marittimi del Mediterraneo.

Sul piazzale davanti al Galata abbiamo allestito una mostra con una piccola parte dei disegni dei bambini di tutto il mondo che hanno partecipato al progetto Colors of peace. Al presidio pacifista anche le foto di Sea Beauty di Stella del Curto e Kaki Tree di Francesco Foletti.

28 ottobre – Abbiamo deciso di far partire il viaggio Mediterraneo Mare di pace da Genova per ricordare alle persone che i porti che si vorrebbero chiusi ai rifugiati e ai migranti sono aperti, sempre aperti, ai carichi di armi. Ufficiali e illegali. Nella città ligure nel maggio scorso i portuali della Filt-Cgil si sono rifiutati di caricare una nave, la Bahri Yanbu, che si sospettava avesse a bordo armi destinate allo Yemen, dove dal 2015 è in corso una guerra civile. Una guerra dimenticata da tutti, che oltre alle migliaia di morti sta provocando la più grande crisi umanitaria dalla Seconda Guerra Mondiale. A causa della guerra, infatti, la povertà nello Yemen è balzata dal 47% della popolazione nel 2014 al 75% (previsto) per la fine del 2019. Stanno letteralmente morendo di fame.

Il carico della Bahri Yanbu era solo una goccia nell’immenso commercio di armi nel mondo che nel quadriennio 2014-2018 è aumentato del 7,8% rispetto al quadriennio precedente e del 23% rispetto al periodo 2004-2008. Le percentuali dicono poco, proviamo allora a dirlo in valori assoluti: nel 2017 la spesa militare mondiale è stata di 1.739 miliardi di dollari, vale da dire il 2,2% del Pil mondiale (fonte Sipri, Stockholm International Peace Research Institute).

In vetta alla classifica, i cinque principali esportatori: Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina. Messi insieme, questi cinque paesi valgono per il 75% circa del volume totale di esportazioni di armi nell’ultimo quinquennio. Il flusso di armi è aumentato in Medio Oriente fra il 2009-13 e fra il 2014-2018.

Bisogna essere ciechi per non vedere la correlazione tra migrazioni nel Mediterraneo e guerre, tra la fuga dalla fame e la vendita di armi. Eppure siamo ciechi. Anzi, diciamolo meglio: scegliamo di essere ciechi.

Così come ci siamo arresi all’indifferenza davanti alle morti dei migranti in mare, allo stesso modo ci siamo rassegnati a considerare la produzione e la vendita di armi un aspetto “fisiologico” dell’economia. Le fabbriche di armi danno lavoro, il trasporto di armi dà lavoro e persino la guerra, pure quella ormai privatizzata, è un lavoro. Nei paesi occidentali che hanno la fortuna di vivere in pace da oltre settant’anni abbiamo rimosso l’idea stessa della guerra, come se fosse qualcosa che non ci riguarda. La Siria? È lontana. Lo Yemen? È lontanissimo. Tutto quello che non accade nel “nostro giardino” non ci tocca.

Chiudiamo gli occhi e ci limitiamo a scuotere la testa davanti alle notizie del tg perché se scegliessimo di vedere, di provare empatia per le persone che vivono la guerra sulla propria pelle, non potremmo eludere la domanda: che cosa posso fare?

In questa prima giornata in barca con il vento che sta rinforzando e rende difficile fare altro che stare in pozzetto a parlare (tra una regolazione e l’altra delle vele, ovviamente) discutiamo proprio di questo: della rassegnazione di fronte alla guerra, di come ci si senta impotenti davanti a un ingranaggio da migliaia di miliardi che muove la macchina di morte. Non riusciamo nemmeno a immaginarli 1.700 miliardi di dollari!

Nella discussione siamo però tutti d’accordo su una cosa: l’importanza di domandarsi, “che cosa posso fare?”.

Le soluzioni possono essere diverse da persona a persona, ma la domanda è uguale per tutti perché è quella che segna l’inizio della presa di coscienza, il passaggio dalla passività all’impegno per migliorare il mondo che ci circonda. Provate a chiedervi: che cosa posso fare?

Intanto alle 12 sale un maestrale deciso. Issiamo tutte le vele e inizia la navigazione. Di bolina, impegnativa per chi deve stare sottocoperta a scrivere. Bisognerà aspettare la prima sosta. A dopo.