Il 31 ottobre non è lontano, e ho il forte presagio che quest’anno, tra zucche sogghignanti e giovanissimi zombie in iperglicemia che riscuotono il consueto tributo di carie avvolto in croccanti confezioni variopinte, per me come per diversi genitori dell’Istituto Comprensivo Pacinotti, la sorte abbia in serbo uno scherzetto non troppo divertente.

La data segna infatti l’emissione del decreto definitivo sul pasto domestico, che, se tanto mi dà tanto, vieterà di consumare a scuola pietanze preparate in casa, alla luce del fatto che non sussistono le condizioni di sostenibilità per garantire gli oneri connessi all’erogazione del servizio (…) a causa della carenza di personale che l’istituto patisce suo malgrado”.

Senza entrare nelle dinamiche del braccio di ferro tra dirigenza e genitori, e senza addentrarmi in tecnicismi legali, che sono fuori dalla mia competenza, vorrei far notare come, a partire dalla scorsa estate, la stampa abbia fatto ricorso a una narrativa sempre in bilico tra il grottesco e il patetico, spesso attraverso l’uso di immagini marziali, accostate ad un lessico del focolare. Ecco allora la “la guerra del panino”, “l’esercito delle mamme”, “la resistenza della schiscetta”. Ovviamente, basta che funzioni. Non importa che questa scelta abbia contribuito a gettare una luce vagamente ridicola su una questione che di ridicolo ha ben poco.

E invece no, accidenti. Le parole sono importanti, come diceva Moretti ai tempi di Palombella Rossa. “Chi parla male pensa male e vive male: bisogna trovare le parole giuste”.

E“panino”, in tutta questa storia, è una parola che funziona, ma che non è giusta per niente. E non è giusta per più di una ragione.

Intanto perché, come si diceva sopra, è una parola buffa, pop, e fortemente evocativa, che svilisce e mortifica l’esigenza che le famiglie a favore del pasto domestico stanno esprimendo. Che non è la rivendicazione del diritto di rimpinzare i bambini di ossalati, nitriti e solfiti, ma di quello alla piena autonomia rispetto alla dieta alimentare da impiegare per la prole, proprio nell’ottica dell’attenzione alla salute. “Panino” è un termine fazioso, che inganna il lettore evocando madri frettolose che alle otto meno cinque imbottiscono tozzi di pane del giorno prima di con un paio di fette di insaccati industrialissimi (sebbene, per come la vedo, con le nuove derive healthy è più verosimile che anche chi si trovi occasionalmente a optare per un sandwich, lo prepari con pane biologico di segale, peperoni a chilometro zero, e toma artigianale).

Nei fatti, chi sceglie il pasto domestico è, nella più parte dei casi, un genitore consapevole che si sobbarca volentieri l’onere di provvedere alla preparazione di un vero pasto completo e bilanciato.

“La mattina mi alzo prima delle sei, così riesco a fare tutto espresso, e con la gavetta termica il cibo resta caldo fino all’ora di pranzo. Ogni giorno mio figlio ha primo secondo e contorno, più la frutta”. Sento frasi come questa da anni, da madri e padri, in barba a un altro cliché molto cheap, molto superato, eppure molto amato dalla stampa, che è quello della mamma ai fornelli, quando sono tantissimi i padri che in casa si occupano della preparazione dei pasti.

Giorni fa, proprio un papà, elencando le pietanze che andavano a comporre il pasto domestico che suo figlio si apprestava a consumare a scuola, ha chiosato, quasi a scusarsi “Certo, stavolta la passata non era artigianale, era Mutti, ma penso possa andare bene lo stesso”.

La seconda ragione per cui la parola “panino” è politicamente scorretta in tutta questa vicenda è legata allo spostamento dell’attenzione dal fulcro della questione.

I genitori “lottano per il panino”. I genitori “si schierano a difesa del panino”. Ci si concentra su questo, sul cosa sta avvenendo, sulle modalità attuate dalle famiglie per organizzare la protesta, sull’inflessibilità della risposta dell’istituto. Senza mai aprire uno spiraglio sulle motivazioni alla base di questo conflitto, senza mai dire chiaramente perché lo scorso anno, gli studenti con pasto da casa alla Manzoni fossero la bellezza di 160.

Una tattica trita e ritrita. Quella del far rumore, creare un’azione diversiva per coprire la voce di chi sta dicendo “Ascolta!”.
La stessa che usano quelli che di fronte al fenomeno Greta Thunberg, anziché concentrarsi sulle istanze alla base delle scelte della giovane in termini di attivismo e militanza ambientalista, parlano delle sue trecce, del suo Asperger, dei burattinai che muoverebbero i suoi fili.

Parlando della “battaglia del panino”, si omette sempre di esplicitare le ragioni della battaglia stessa. Che sono prosaiche, pragmatiche ancor prima che ideologiche, e pertanto difficilmente contestabili.

I genitori che fino a ieri avevano trovato una soluzione nel  pasto da casa, e che oggi si sono “messi a fare casino”, lo hanno fatto perché quanto offerto dalla mensa scolastica gestita dal comune negli ultimi anni si è dimostrato a stento commestibile. Perché i bambini tornavano a casa semidigiuni, avendo saggiamente scelto di consumare un po’ di pane e una banana, e di saltare a piè pari il riso in bianco dall’inspiegabile sentore di pesce, i fagiolini pieni di brina perché solo in parte scongelati (rammentiamo che uno degli argomenti favoriti di chi sta ostacolando il pasto da casa è quello relativo alla sicurezza alimentare), la carne immasticabile e via dicendo.

I genitori che fino a ieri avevano trovato una soluzione nel pasto da casa, e che oggi si sono “messi a fare casino”, lo hanno fatto perché volevano che i figli mangiassero, e che mangiassero bene. E la mensa del comune non sembrava in grado di garantirlo, offrendo pietanze francamente cattive, spesso approssimativamente riscaldate, in quantità insufficiente per il numero di bambini da soddisfare, ad un prezzo che non si avvicinava neppure a giustificare la qualità dell’offerta.

Il perché è qui, così piccolo, così banale che nessuno si prende la briga di tirarlo in ballo. Si continua a ricorrere ai titoli a effetto, a creare retorica, indigesta e fasulla come le pietanze di plastica fuori dai ristoranti per turisti nelle grandi città. O, per restare in tema, come un panino di plastilina, plasmato dalle mani di un bambino.

Chiara Giaquinto