La vicenda di Riace e l’arresto di “Mimmo” Lucano, se visti in un’ottica differente da quella diffusa, possono rappresentare un punto di svolta cruciale per la riflessione sulla tematica dell’Immigrazione, spezzando una dinamica che inizia ad essere obsoleta, pretestuosa e totalmente improduttiva se non in termini propagandistici. Si potrebbe cioè parlare, finalmente, dei migranti non a colpi di share e di like ma in termini di efficacia (o non efficacia, a seconda delle analisi) sul tessuto sociale, economico e urbano del nostro Paese. Sfuggendo cosi all’odio dei “talebani” o al buonismo degli “ecumenic chic” qualunque esse siano le conclusioni. La partita dei migranti, in tal senso, non si gioca né nel Mediterraneo, né a bordo di una nave, né in divisa rossa. Il destino della nostra società come frutto di differenti componenti umane si gioca a Riace. Ovvero su un modello che, giusto o sbagliato che possa sembrare, ci impone riflessioni di tipo più pragmatico e non puramente idealistico.

Come si inseriscono i migranti nel nostro territorio? Come impattano sul tessuto sociale? Come su quello urbano? Quale apporto possono dare?

Perché la partita, quella concreta e reale, è tutta qui e si deve liberare di tutte quelle componenti falsamente ideologiche che alimentano solo divisioni, odio e, soprattutto, non comportano assolutamente nulla, in termini di benefit per il nostro territorio. In tal senso, Riace e la sua esperienza, l’arresto di Lucano e la sua risonanza, ci offrono un’occasione da spartiacque. Non perché quel modello sia la virtuosità e la verità assoluta ma perché quell’esperienza può aprire il dibattito e il confronto sull’organizzazione sociale ed economica dell’immigrazione. Sicuramente ci sarà chi rimarcherà le proprie posizione pro o contro i fenomeni migratori ma, almeno, la strada intrapresa sarà più costruttiva di certo. Nasceranno domande sulle quali impiantare programmi e azioni. Posso far si che tutta una serie di fondi, messi a disposizione dalle Istituzioni, possano non andare persi e, soprattutto, quando destinati esclusivamente all’accoglienza, possano diventare, attraverso progetti di reale compartecipazione e integrazione, anche destinati all’economia locale e già presente? Posso, attraverso, lo stesso sistema promuovere le iniziative locali e dare supporto ad iniziative di imprenditoria giovanile o di imprenditoria culturale? Posso, ancora, aprire nuovi mercati e tipologie di economia alternativa, modificando il sistema europeo attuale che sembra essere di semplice assistenzialismo, in un sistema dinamico e incentivante? Posso rivalutare l’architettura urbana o il patrimonio storico dei centri minori se destino quelle strutture a progetti di accoglienza finanziati? Posso ripopolare centri e zone precipitate da anni nell’abisso dello spopolamento, cosi da contrastare, a mia volta, determinati flussi migratori, rilanciare economie locali quasi scomparse e, cosa più importante, di conseguenza, sottrarre territori, urbani e umani, alla malavita?

Come posso far si che una massa importante di braccia disponibile possa messa essere al servizio dell’economia collettiva e non della mafia? E via dicendo, a flusso continuo. Non è un qualcosa di astratto, non è qualcosa di canzonatorio. Basti pensare che è il paradigma, per assurdo, che più di ogni altro ha compreso chi occupa le pagine di decine di inchieste per mafia e sfruttamento dell’immigrazione. Molti di quei delinquenti hanno compreso perfettamente il sistema di sovvenzionamento e di risorse per piegarlo ai propri interessi individuali e criminali, commettendo reato. Dunque perché non comprenderlo, al contrario, per metterlo al servizio della collettività e quindi rispettando il principio di origine e la legalità. Se decine di Paesi si sono arricchiti, nel corso della storia, grazie all’opera dei migranti, perché non potremmo farlo noi?

Entrando nello specifico, la considerazione di partenza di chi scrive, è che il flusso migratorio non si ferma e non si fermerà. Può subire cali o, addirittura, fantascientifiche battute di arresto, ma non si può bloccare. C’è troppo squilibrio nel mondo. Allora l’unica via rimane quella dettata da uno dei principi cardini della nonviolenza: spostare la prospettiva. Il problema deve divenire, per forza di cosa e per garanzia del futuro, una risorsa.

Farlo non è semplice, presuppone, di uscire da un clima e da una dinamica che ormai, volenti o nolenti, ci risucchia fin troppo spesso.

Prima di tutto bisogna riappropriarsi del tema che si è lasciato, negli ultimi mesi, totalmente in mano ad una politica che non si capisce più se sia propensa a dettare la linea o ad inseguire semplicemente le pance dell’elettorato. Riappropriarsi del tema significa, però, rigettare anche azioni che già in partenza hanno tutto per essere politicizzate da questa o da quell’altra fazione. Per farlo, di conseguenza, bisogna uscire da una dinamica di stampo quasi elettorale, se non di pseudoclientelismo, a cui spesso anche molte ong ricorrono. Non si getta il fango su nessuno a priori, si parla, forse, però, di un errore di valutazione. Spesso le parti politiche a cui si presta il fianco, o quantomeno, gli elettori di quella parte politica, sono anche i sostenitori di determinate realtà, se non altro per contiguità di ideali. Spesso ong e partiti politici hanno stessi finanziatori e donatori. Se i fondi vengono accettati dettando la linea programmatica tutto ciò è una risorsa importante, se, al contrario, il sistema di finanziamento è assoggettato alle logiche di potere del sistema consumistico e di marketing in atto, o peggio, allora francamente siamo fuori strada. Anche perché risulta difficile cambiare un sistema piegandosi allo stesso. La linea che si traccia deve essere chiara ed efficace. Non si può avere quell’ambiguo garantismo che spesso si vede in tanto associazionismo, non si può avere quella falsità di facciata che si vede in tanta politica.

Infine, bisogna radicalmente cambiare l’orizzonte culturale in cui ci si muove. Comprenderlo profondamente, studiarlo, nelle sue origini e nelle sue dinamiche attuali. Non si può parlare di temi che, per quanto giusti, sono lontani anni luce dall’Italia attuale e invece che solidarietà generano, spesso, appunto, una distanza che qualcuno sfrutta come disumana frustrazione sfociante in odio. Né, tantomeno, si può inseguire quella solidarietà che va bene a molti, solo perché lontana e in grado di garantire un lavaggio di coscienza in un vorticoso rapporto di complicità-colpa-perdono. Bisogna trovare i punti di contatto, parlare la lingua corrente, trovare – e come sempre è la nonviolenza a venirci incontro – i punti di contatto e non quelli di differenza. Perché un italiano, ormai, non conosce più cosa significa la guerra o cosa significa morire come mosche ma, conosce bene, come qualsiasi essere umano a qualsiasi latitudine del mondo i sentimenti della paura, dell’insoddisfazione, della speranza, dell’amore, del sacrificio.

Sicuramente questa è una posizione frutto di un’esperienza anomala, se non controversa, nel panorama della cooperazione internazionale, come quella di Atlantide e di molte realtà del Movimento Umanista. Se dovessimo, infatti, sintetizzare al massimo, ammiccando e deridendo una certa retorica, potremmo descrivere la nostra attività in un semplice “li aiutiamo a casa loro”, convinti come siamo dell’autodeterminazione dei popoli e dell’autosviluppo come unica chiave capace di garantire indipendenza, democrazia ed un riequilibrio nell’accesso e nella gestione delle risorse. Questo lavoro, però, non ha nessuna prospettiva e nessuna valenza, se non è supportato, in parallelo, da un’opera che attua gli stessi ideali, la stessa esperienza e lo stesso pragmatismo qui in Italia con una nuova politica di integrazione forte, efficace e non ambigua. La partita si gioca nei paesi di origine e nei paesi di destinazione dei flussi migratori, ciò che è in mezzo ne è diretta conseguenza. L’esperienza di Riace, per come si è sviluppata, o anche solo per la riflessione che genera può essere una risorsa ed uno spunto.