Renzi è senz’altro un abilissimo comunicatore, ma è altrettanto vero che può contare su una stampa che gronda conformismo e servilismo. Infatti, il giorno del varo dei decreti attuativi del Jobs Act è stato difficile, se non impossibile, trovare qualche titolo di qualche tg che non ripetesse pedissequamente la narrazione renziana sulla presunta abolizione dei contratti precari e sulla loro sostituzione con il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Suona bene, certo, specie se lo ripetono in tanti dal pulpito televisivo. Peccato però che non sia vero niente. Anzitutto perché tra tutte le forme contrattuali precarie esistenti sono state abolite solo quelle inutilizzate o che non interessavano granché a Confindustria, cioè l’associazione in partecipazione e il job sharing, mentre i co.co.pro. verranno sì aboliti a partire dal 2016, ma solo laddove non sono previsti dai contratti nazionali. A tutto questo va aggiunto che viene confermato in pieno il decreto Poletti (legge 78/2014), che tra l’altro aveva aumentato a 36 mesi, comprensivi di 5 proroghe, la durata massima per l’acasualità dei contratti a termine.

Ed eccoci al famoso “contratto a tempo determinato a tutele crescenti”, quello che secondo Renzi sostituirebbe i contratti precari, ma che in realtà fa l’esatto contrario, cioè sostituisce il contratto a tempo indeterminato. Infatti, d’ora in poi ogni nuovo assunto, anche chi a 50 anni cambia posto di lavoro, non verrà più assunto con il contratto a tempo indeterminato così come lo conosciamo, bensì con quello nuovo.

E la differenza tra quello vecchio e quello nuovo è sostanziale, cioè sta nella disciplina del licenziamento, individuale e collettivo, poiché per quelli nuovi non vale più l’articolo 18, cioè la possibilità del reintegro nel posto del lavoro, salvo per alcune fattispecie particolari, cioè quelle più difficili da dimostrare in sede processuale. In altre parole, il nuovo contratto rende precario anche quello che sulla carta continua a chiamarsi “tempo indeterminato”.

Per capirci, con il nuovo contratto, anche se il giudice accerta che sei stato vittima di un licenziamento illegittimo, il tuo posto di lavoro non puoi più riaverlo, ma avrai semplicemente un indennizzo. L’ammontare di quest’ultimo, peraltro, non viene deciso in autonomia dal giudice, ma il decreto attuativo prevede un preciso tariffario. Insomma, per dirla con l’Ocse, più prosaica e meno incline alle narrazioni, la nuova normativa va bene perché riduce i costi reali dei licenziamenti.

Il contrasto tra narrazione e realtà è radicale e manifesto, eppure la prima prevale nettamente e brutalmente sulla seconda. E questo è indubbiamente un segno dei tempi, anzi, forse è il segno più eloquente di tutti, poiché certifica che sono cambiati in profondità non soltanto i rapporti di forza sociali, ma definitivamente anche l’egemonia culturale, cioè la capacità di produrre narrazione non minoritaria.

L’articolo 18 e lo Statuto dei Lavoratori furono il prodotto di un’epoca di conflitti, movimenti e grandi aspirazioni, che avevano modificato i rapporti di forza. Contro quel movimento operaio furono scagliate le bombe della strategia della tensione e lo stesso Statuto dei Lavoratori era concepito come un modo per frenare l’impeto della mobilitazione sociale. Non solo i rivoluzionari dell’epoca lo consideravano moderato, ma in quel 1970 anche il PCI si astenne in Parlamento sullo Statuto. Ma poi arrivarono gli anni della sconfitta, del riflusso, delle ristrutturazioni e dei dogmi del neoliberismo. I rapporti di forza man mano tornarono a parlare la lingua del padrone, nel frattempo sempre più globalizzato e finanziarizzato, e l’articolo 18 diventò una bandiera, una diga, un’estrema difesa per un lavoro sotto attacco. Alla fine anche questa diga ha ceduto, non sotto i colpi di Berlusconi e delle destre, bensì sotto quelli di Renzi, capo del partito che affonda le sue radici in quello che fu il PCI. E anche questo è altamente significativo.

Con il Jobs Act non cambia soltanto una norma, non c’è soltanto un’ulteriore spinta verso la precarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici, ma cambia il paradigma e si chiude definitivamente un ciclo, quello apertosi con le lotte operaie e studentesche del ’68-’69 e forse anche oltre. Questo è il senso profondo dell’operazione gestita da Renzi e richiesta dall’Europa delle politiche d’austerità.

Nulla sarà più come prima e questo significa anche che le pratiche politiche, sociali e sindacali alle quali siamo abituati e che si erano formate e istituzionalizzate nei decenni precedenti non sono più adeguate, non corrispondono più alla realtà sociale, politica e normativa. Renzi lo sa bene e lo sanno bene i banchieri europei e i padroni nostrani, ma noi lo abbiamo capito? Ahinoi, mi pare che dalle nostre parti, a sinistra, nel sindacalismo conflittuale (quell’altro lasciamolo perdere) e nei movimenti, la consapevolezza del cambio d’epoca e delle relative implicazioni fatichi tuttora a farsi largo. Non che le risposte siano semplici o già pronte -anzi, sarà düra, come dicono in Valle-, ma essere consapevoli del problema è condicio sine qua non per non rimanere impantanati in schemi e modalità che non hanno più senso e per poter invece guardare avanti e costruire un nuovo ciclo.