“Lamiere. La Letteratura tra Fabbrica e Città”, pubblicato dalla giovane ed intraprendente casa editrice “ad est dell’equatore”, è un volume anomalo per molti aspetti (la dimensione del prodotto, la composizione del testo, la tematica della narrazione; se si vuole, persino il campo disposto per l’analisi e l’angolatura prescelta per la riflessione) e la sua presentazione nell’ambito del Progetto Gutenberg 2013 (“Vedi alla Voce: Amore e Libertà”) ha ancor più, se possibile, messo in risalto le sue peculiarità e la sua anomalia. Anomalo, in primo luogo, per il fronte narrativo prescelto: una “narrazione corale” o una “coralità pluralistica” di voci che hanno permesso di condensare, in dodici saggi tematici e un inserto poetico di grande pregio, alcuni dei tratti salienti della cosiddetta “letteratura industriale” del secondo Novecento della letteratura italiana, attraverso lo spaccato offerto tanto da alcuni romanzi-guida, quanto da saggi e monografie, in gran parte, ospitati nelle riviste letterarie, da quelle storiche, quali “Il Politecnico” e “Il Menabò”, a quelle tecniche, quali le riviste culturali di fabbrica, da “Il Gatto Selvatico” alla Rivista “Pirelli”. Anomalo, inoltre, anche il contesto della ricerca, che si muove costantemente in bilico tra epifanie e paradossi, interrogativi ed ambiguità: intorno ai limiti, al connotato e alla vigenza di una narrativa e, in generale, di una letteratura propriamente “industriale”; intorno alla “praticabilità letteraria” della vicenda industriale quale argomento culturale e forma letteraria; intorno, in ultimo non certo per rilievo, alla stessa auto-consapevolezza “industriale” di quella letteratura che ha inteso dedicare al mondo della fabbrica il suo sfondo e il suo orizzonte. Il volume attraversa, insomma, una “ricerca problematica” per definizione e, per questo, lo fa con consapevolezza e azzardo nello stesso tempo: da una parte, conferma la auto-consapevolezza “industriale” dei letterati che alla fabbrica hanno dedicato tanta parte (non marginale e non episodica) della propria produzione narrativa (appunto: grandi che hanno parlato di grandi, di grandi contesti sociali, quali le fabbriche fordiste, e di grandi spaccati sociali, con tutta la congerie dei rapporti sociali di produzione determinati dalla connessione tra la “fabbrica” e la “città”); dall’altra, squarcia il velo dei conformismi e delle certezze, aprendo l’orizzonte ad interrogativi fondamentali, ad esempio se sia esprimibile in quanto tale la cosiddetta “letteratura industriale” o non sia piuttosto preferibile un riferimento pluralistico, ad esempio a più variegate “scritture industriali” (nelle quali si cimentarono senza dubbio i “grandi”, da Volponi a Parise, da Ottieri a Levi, passando per Calvino, Sinisgalli, Bianciardi, Fortini …). Questa, a tal punto “presunta”, letteratura industriale non è tuttavia meno degna di analisi in ragione della propria problematicità: anzi, proprio in quanto campo aperto di esperienze e di contraddizioni, essa si rivela decisiva: uno spaccato fondamentale del Novecento e della sua congerie, uno specchio deforme delle ansie e delle angosce della letteratura della alienazione (o della irrealtà, a seconda delle letture e dei punti di vista), ma anche un luogo decisivo per comprendere tanta parte della storia del nostro Paese, con le sue speranze e le sue contraddizioni, tra ricostruzione civile e boom economico, anch’esso perennemente sospeso tra ansie di modernizzazione e precipizi di conservazione. Il tentativo di “offrire ordine al caos” si scontra certo con il muro della diffidenza e la congiura del silenzio (le poche prove sin qui realizzate, anche nel panorama editoriale più recente, di “affrontare” la questione, perfino di “sfidare” il pubblico con questi argomenti), ma non si trincera dietro il riserbo o l’omertà; al punto che, nel farlo, inevitabilmente riproduce le anomalie della sua ispirazione, nelle quali restano catturate, tuttavia, anche suggestive ipotesi di interpretazione. Come nella proposta di periodizzazione della lunga stagione della letteratura industriale in Italia attraverso tre generazioni, dai precursori paleo-industriali (Bernari e Pratolini), ai campioni della grande stagione industriale ed olivettiana (Ottieri e Volponi in primo luogo), per finire con i lettori tardi e gli epigoni ultimi, in cui la narrazione si sfrangia e la rappresentazione del lavoro (e della fabbrica) diventa anche quella del non-lavoro (e della post-fabbrica), da Primo Levi ad Andrea Bajani. Come pure, infine, per una suggestiva ipotesi di interpretazione, appena sfiorata e offerta alla personale riflessione del lettore, quella del fare del “romanzo industriale” un vero e proprio “dispositivo” (G. Agamben) del tempo presente, un insieme di strumenti e di espressioni che permettono di veicolare un contenuto o, più specificamente, di attrezzare una forma di potere, una pratica di controllo, un esercizio di inibizione (manifestato attraverso la nevrosi operaia piuttosto che tramite l’alienazione industriale).  Un luogo denso di senso, dunque, incapace di dire se non in relazione con le esperienze (storiche, sociali, culturali) più rilevanti della coeva, eppure recente, stagione democratica, repubblicana e costituzionale.

Scheda del libro:

http://www.adestdellequatore.com/2012/11/lamiere-a-cura-di-gianmarco-pisa/