Sempre difficile fare il ritratto di un presidente. Si può scadere facilmente nell’agiografia, nella mitizzazione, nell’elogio immotivato che non coglie le ombre. E la Storia ci dimostra che quando si esalta una persona si può finire in strade pericolose. Stavolta però il caso vuole che la personalità e le idee dell’uomo in questione siano talmente emblematiche e rappresentative da meritare un certo approfondimento e anche un po’ d’ammirazione.

José Alberto Mujica Cordano, conosciuto come “Pepe”, da quando è diventato presidente dell’Uruguay (eletto nel novembre 2009, comincia il suo mandato nel marzo 2010 e lo terminerà nel 2015) è considerato una specie di figura leggendaria, mitologica. In tempi di corruzione, scandali finanziari e appropriazione indebita di denaro pubblico, la sua condotta sembra provenire da un altro pianeta. Mujica infatti dell’equivalente di circa 12.000 dollari mensili che lo Stato gli assegna per il suo ruolo, ne devolve il 90% ad associazioni caritatevoli, facendosi bastare 1.200 dollari. Già da deputato aveva fatto la stessa cosa, accettando solo uno stipendio equivalente alla paga minima di un operaio uruguayano e continuando ad esercitare il suo umile lavoro: venditore di fiori recisi nei mercati rionali della Montevideo più popolare. La sua dichiarazione dei redditi equivale al valore della sua unica proprietà, un maggiolino Volkswagen azzurro del 1987. Nella celebrazione dell’investitura era a bordo di un’auto elettrica. Vive da vegetariano in piena campagna, in un casale molto modesto circondato da una piccola fattoria di Rincón del Cerro di proprietà della moglie.

Il suo passato è inoltre legato alla lotta politica per la liberazione dell’Uruguay: militante dei guerriglieri urbani Tupamaros, fu catturato con altri dai militari del regime che opprimeva il Paese e tenuto prigioniero per oltre 10 anni da solo in un pozzo. Nonostante l’isolamento e le comprovate torture subìte, anche dopo la fine della dittatura (1985) ha continuato la sua attività politica, nel partito della sinistra radicale Movimiento de Participación Popular (MPP), nuova veste del Movimento di Liberazione Nazionale-Tupamaros ormai divenuti legali e non più armati. Ne diventa tra i principali esponenti (anche la moglie Lucía Topolansky ha occupato ruoli di vertice nel partito ed è stata presidente del Senato), e viene ripetutamente eletto deputato e senatore, occupando anche le carica di Ministro dell’Agricoltura e della Pesca nel precedente governo.

È evidente che Pepe Mujica rappresenta un modello auspicabile di figura pubblica, che non vive nello sfarzo mentre il resto del Paese è vicino alla soglia di povertà, e che non approfitta della sua carica; e che ha scelto un modello di vita sostenibile umanamente ed ecologicamente. E scusate se è poco. Tuttavia, il suo essere un presidente “anticasta” che manderebbe su di giri gli esponenti del Movimento 5 Stelle italiano, non è secondo me il tratto caratterizzante della sua figura. Il suo stile di vita è coerente con una visione del futuro, con un’idea di progresso alternativa che mette insieme l’uguaglianza degli uomini e la sostenibilità ambientale. Mujica non si limita ad essere un personaggio dirompente, che rompe gli schemi, che irrompe nelle sfere alte del potere partendo dagli strati più bassi della società, ma si fa portavoce a livello regionale sudamericano (e perché no, mondiale) di un’esigenza di profondo cambiamento dei modelli occidentali globalizzati che ci stanno distruggendo. È curioso che questa spinta in avanti provenga da un contadino 77enne, ma è così. A mio modesto parere, è in quest’ottica che il suo “rivoluzionario” comportamento ha grande senso e diventa un esempio significativo, e non una mera questione di facciata.

Le sue idee di futuro sono state ben espresse in un importante consesso internazionale, nel suo discorso al vertice Rio+20 del giugno 2012 che ha spiazzato tutti. Non è facile sentir parlare di critica del modello di sviluppo e di consumo, di solidarietà da opporre alla concorrenza spietata, né è roba da tutti i giorni vedere un capo di Stato che fa autocritica, attribuendo la crisi globale non a una fantomatica calamità naturale ma a uno scadimento della politica, a precise scelte fatte o non fatte da chi ha il potere. Ancor meno è facile sentir dire che non possiamo lasciar passare una vita intera a lavorare ed essere schiavi di ciò che possediamo e che veniamo al mondo per essere felici: «Lo sviluppo non può andare contro la felicità, deve essere a favore della felicità umana: dell’amore, della terra, delle relazioni umane, del prendersi cura dei bambini, dell’avere amici, dell’avere l’indispensabile per vivere […] Il primo elemento dell’ambiente si chiama “felicità umana”.»

Si badi bene che qui il concetto di felicità è agli antipodi di quello degli Stati Uniti, che pure hanno la pursuit of happiness inscritta in quella Dichiarazione d’Indipendenza che nel 1776 li fonda. Di fatto, la Storia ci ha dimostrato che quel modello di felicità si è tradotto in lavoro massacrante e consumo sfrenato, necessari per potersi permettere un certo stile di vita agiato, possedere dei beni, accumulare ricchezze e raggiungere un certo status sociale. Mujica sembra invece intendere, elencando tutta una serie di altri semplici valori, dalla terra alle relazioni umane, una definizione più semplice e alternativa del concetto.

Ma veniamo alle critiche a Mujica. Ne esistono da sinistra e da destra, come sempre accade quando ci si prende la responsabilità di governare.

La sensazione è che il “Pepe”, nonostante le buone intenzioni e un programma radicale, non stia rappresentando una sostanziale svolta rispetto al suo predecessore Tabaré Vazquez (il primo presidente della Repubblica di centro-sinistra, eletto nel 2004) anche perché la coalizione della sinistra che lo ha candidato e fatto eleggere a Capo di Stato, il Frente Amplio (FA) ha seguito sempre una linea socialista moderata e riformista, dovendo individuare un punto di conciliazione tra le sue diverse anime interne che spaziano dal cristianesimo sociale alla socialdemocrazia al marxismo più puro. Danilo Astori, ex ministro dell’economia del governo Vazquez e personalità di spicco frenteamplista, è stato sì battuto alle primarie da Mujica, ma è stato quasi imposto come suo vicepresidente e in quanto a scelte economiche gli è stata garantita una grande influenza sul presidente: c’è chi dice che abbia di fatto l’ultima parola e che conti quasi come un Primo Ministro

Di conseguenza, a livello economico-sociale non c’è stata una reale soluzione di continuità col precedente esecutivo: continuano a esserci delle multinazionali straniere che si appropriano della terra (che secondo il programma sarebbe dovuta essere collettivamente redistribuita) o della gestione di foreste e risorse energetiche; non si è realmente messo in discussione il sottostare a organismi finanziari internazionali paladini del neoliberismo come il Fondo Monetario; il grosso tema della criminalità e della sicurezza è stato affrontato con politiche di stampo securitario; non si è intervenuti in senso redistributivo per quanto riguarda le pensioni (qui il resoconto del sito SenzaSoste). Tutta una serie di indicatori economici e sociali sono tuttavia molto positivi: crescono l’occupazione, il livello d’istruzione, il numero di persone raggiunte dai servizi sociali e dal welfare; diminuisce il numero di persone sotto la soglia di povertà (dal 31,9% del 2004 al 14% del 2011), così come l’inflazione. Ma è difficile capire se ciò si sia tradotto in un effettivo miglioramento delle condizioni di vita degli uruguayani, i quali secondo sondaggi riportati dalla Bbc avrebbero espresso ultimamente un gradimento sempre minore nei confronti di un presidente molto carismatico e ben voluto dalle classi popolari. La politica estera ha invece visto scelte in controtendenza: allontanamento dagli Usa e avvicinamento alle organizzazioni integrazioniste regionali: il Mercosur a livello economico e l’Unasur a livello politico.

Per quanto riguarda i diritti civili è da segnalare sicuramente un consistente passo in avanti, con la legalizzazione dell’aborto, novità assoluta nel panorama sudamericano (l’isola di Cuba è il solo stato tra i più vicini a permettere l’interruzione di gravidanza) e l’inizio di un procedimento che porterà a legalizzare la vendita e il consumo di marijuana ai soli uruguayani, con lo scopo anche di contenere l’enorme fenomeno del narcotraffico (qui il reportage del sito Cambiailmondo). In questi ambiti, come nella politica estera, è evidente una forte critica dell’opposizione di centrodestra, secondo la quale il presidente dovrebbe occuparsi di più della situazione economica che di questi temi.

Nonostante pregi e difetti, il fenomeno “Pepe” va inserito sicuramente in un Sudamerica che sembra stia vivendo un periodo di alternativa possibile. In questo, come ha scritto il filosofo Gianni Vattimo giorni fa in un editoriale, va riconosciuto sicuramente il merito del compianto Hugo Chávez, che ha dato il la alla ribellione allo strapotere del neoliberismo e della politica Usa del “cortile di casa” nel Continente.

Non dobbiamo dimenticare che in questo angolo del mondo i vicini Stati Uniti hanno fatto per tutto il Novecento il bello e cattivo tempo, con l’imperversare dell’intelligence che ha innescato golpe e permesso l’instaurazione di dittature sanguinarie che hanno agevolato la depredazione del continente senza che ci fosse una manifesta occupazione in stile coloniale. Aggiungendo a questo la complessità e particolarità dei sistemi politici e partitici latinoamericani, è comunque un lodevole passo avanti la presenza di governi coraggiosi che fanno la voce grossa contro lo strapotere americano ed il modello di sviluppo voluto da Washington. E che mostrano uno sguardo più attento verso le condizioni delle persone, e non solo verso gli affari e la macroeconomia, pur non rappresentando  magari la “svolta” che ci aspetteremmo.

Di questa schiera, che solitamente coopera manifestando così una tendenza “integrazionista” del Sudamerica, fanno parte non solo Pepe Mujica dell’Uruguay, ma anche Evo Morales che guida la Bolivia, Cristina Fernández  de Kirchner presidenta dell’Argentina e aggiungerei anche Dilma Rousseff (che in Brasile prosegue il lavoro di Lula) e Rafael Correa dell’Ecuador.

Questi capi di Stato, dietro i quali non va dimenticata la presenza di grossi movimenti popolari, hanno con fatica portato l’America Latina ad una sorta di equilibrio e sono orientati in una direzione integrazionista che secondo alcuni l’elezione di un Papa argentino potrebbe turbare (si veda ad esempio qui l’opinione, tra le altre, del sito “Piazza del Foro”). Da notare che Mujica non era presente alla cerimonia di investitura del nuovo pontefice, al contrario di molti suoi omologhi latinoamericani, in quanto non credente e per testimoniare il carattere assolutamente laico della Repubblica.

In ogni caso da queste parti la speranza di cambiamento non sembra ancora desaparecida, anzi, in molti sono fiduciosi che possa, con le dovute differenze  e peculiarità, rappresentare un orientamento anche per il resto del mondo.

Domenico Musella