Dal punto di vista economico, il presidente intendeva così correggere alcune disuguaglianze lasciate dalla colonizzazione, specie quelle legate all’accesso alla proprietà fondiaria. A due anni dalla sua entrata in vigore, i risultati di questa legge sono piuttosto deboli.

Nel promulgare questa legge, il presidente Mugabe voleva colmare il fossato creato dalla colonizzazione per quanto riguarda gli aspetti della proprietà fondiaria. Si tratta in un certo modo di una forma di nazionalizzazione delle imprese straniere con sedi nel paese. Si vuole far passare almeno il 51% del capitale delle grandi imprese straniere operanti nel paese, in particolare quelle minerarie, sotto il controllo dei nazionali.

Bisogna rendersi conto che l’indigenizzazione lanciata due anni fa dal presidente dello Zimbabwe non è altro che la continuazione della riforma agraria iniziata nel 2000. Infatti, anche quest’ultima, come l’indigenizzazione odierna, intendeva ridurre le inuguaglianze e far uscire gli abitanti dalla situazione di povertà riparando i danni del colonialismo, in particolare con la ridistribuzione agli abitanti dello Zimbabwe delle terre in mani agli agricoltori bianchi. Dopo questa entrata fragorosa nelle piantagioni dei bianchi, tuttavia, la legge si era dimostrata quasi inefficace visto che gli abitanti del posto non erano pronti, nè tecnicamente nè finanziariamente, al passaggio del testimone.

Il trasferimento del 51% del capitale delle imprese straniere permetterà ai piccoli investitori locali di lanciarsi in affari più o meno grandi. E ciò, benché i proprietari di queste imprese non si facciano certo pregare per dichiarare che non si tratta d’altro che di una maniera di obbligarli a lasciare la gestione delle loro imprese nelle mani del locali. L’indigenizzazione dell’economia dello Zimbabwe si inserice in un processo che definisce l’identità nazionale in modo molto ristretto e alla quale bianchi e neri hanno diritto nello stesso modo.

Nello Zimbabwe, la terra e la sovranità sono nel cuore stesso della definizione di identità nazionale propugnata dallo ZANU-PF, il partito al potere, e sono anche alla base della lotta anticoloniale e antimperialista delle autorità del paese.

A dispetto delle difficoltà dei proprietari delle imprese straniere ad inghiottire la pillola dell’indigenizzazione, questa è popolare nel paese. E per capire questa iniziativa, bisogna capire che l’indigenizzazione mira essenzialmente ad offrire una identità positiva al popolo, a dargli la fierezza di essere nero e di essere “capace”, di essere responsabile e ricco. E con il leitmotiv di non dipendere più dai ricchi bianchi.

Mugabe non è il solo, nella regione dell’Africa australe quasi tutti i paesi stanno andando verso l’indigenizzazione dell’economia. In Africa del Sud come nello Zimbabwe, la richiesta di trasformazione sociopolitica si esprime sempre più in termini economici, avendo come base le enormi ricchezze che i bianchi si sono accaparrati duranti gli anni della colonizzazione e del potere.

Il “black Economic Empowerment” lanciato dal presidente sudafricano Thabo Mbeki ne è un esempio. Comprendendo la fondatezza di questa legge, le imprese coinvolte vorrebbero però vedere un diverso orientamento: nel 2011, per esempio, lo Zimbabwe ha respinto la proposta della banca britannica Standard Chartered di cedere il 10% del capitale locale a dei neri anziché il 51%.

Oggi, tutte le parti interessate si trovano d’accordo sullo spirito della legge, ma con punti di vista divergenti rispetto al suo contenuto, specie per quanto riguarda la percentuale di partecipazione dei neri. Ecco i motivi dei negoziati tuttora in corso con il governo. In definitiva, questa legge, come quella sulla riforma agraria, darà una mano nella redistribuzioni equa dei redditi nazionali. Una volta ancora, le disuguaglianze profondamente radicate nel paese verrano ulteriormente ridotte.

Traduzione di Giuseppina Vecchia